Ancora sul mistero dell’acqua contaminata di Ancona
Interrompiamo le trasmissioni per una notizia che giunge ora in redazione. I normali controlli dell’acqua potabile, effettuati a campione dall’azienda municipalizzata dei servizi di Ancona, hanno isolato in alcune zone della città un agente batterico sconosciuto. Al momento sembrano escludersi sia la tossicità di tale agente per le persone che eventuali possibilità di contagio. L’équipe del premio Nobel giapponese per la biologia, Haruki Horyama, si sta già occupando degli accertamenti del caso tramite collegamento in videoconferenza con gli esperti della clinica di biologia dell’Università Politecnica delle Marche. L’azienda municipalizzata si scusa per le eventuali interruzioni del servizio di erogazione idrica. Ecco ora alcuni consigli del Ministro della Protezione Civile su come comportarsi: “Non c’è motivo di allarmarsi. In attesa degli esiti definitivi degli esami di laboratorio, è comunque consigliabile bere acqua imbottigliata. Evitare, in ogni caso, il contatto con la pelle, i capelli e qualsiasi tipo di inalazione”.
Vi ricordate il mistero dell’acqua contaminata nella città dorica? Niente panico: si tratta solo della traccia affidata ai partecipanti al primo corso anconetano di RaccontidiCittà, svoltosi nell’ormai lontano gennaio 2006!
I racconti dei partecipanti a quel corso sono da tempo stati pubblicati su questo sito, ma ai nove già presenti se ne sono aggiunti altri due, che pubblichiamo – con grandissimo piacere – qui di seguito.
Indice:
1. Il grande uomo (racconto di Tricia Lioni)
2. Camillo (racconto di Agnese Zammit)
1. Il grande uomo (racconto di Tricia Lioni)
Giacomo è un bell’uomo, un quarantenne dai lineamenti marcati, vestito in modo elegante. Passeggia distrattamente lungo questo viale alberato, spina dorsale della città di Ancona, volgendo lo sguardo ai cornicioni dei palazzi che, come delle apofisi anatomiche, lasciano dipartire la vista ad altrettante costruzioni che si diramano nelle via laterali a mo’ di coste.
Il suo pensiero corre ad un programma televisivo sul corpo umano e si immagina in un mondo di lillipuziani a percorrere le vertebre di un immenso corpo che è questa città adriatica. Gli sembra di passare dal capo (il Passetto) al nucleo pelvico di piazza Cavour e di qui pensa che proseguirà il suo viaggio fino al porto lungo il grande arto inferiore di corso Garibaldi.
È una giornata come tante altre, probabilmente per molte persone, ma non per lui.
Sta assaporando passo dopo passo il piacere e nel contempo il dolore di una scelta fondamentale della sua vita che si appresta a comunicare al mondo intero. Non ha ancora chiare in mente le modalità con cui a tutti farà presente ciò che ha deciso. Per ora si lascia trasportare dal suo piccolo affascinante corpo in questa corporea incorporeità di una città di provincia fino a pochi mesi prima anche a lui sconosciuta. Ora non più. E d’ora in poi ancor meno. È per questo che la sta immaginando come un uomo gigantesco, assopito e incurante di coloro che lo percorrono in lungo e in largo a bordo di auto o rumorosi motorini. Quest’uomo è la città stessa, così diffidente e di difficile interpretazione, tant’è che Giacomo si chiede più e più volte se sia lecito passargli sopra senza neanche chiedere permesso. Poi nel contempo si diverte a provocarlo, calpestando violentemente la cicca della sigaretta appena fumata lungo la pavimentazione del Viale della Vittoria, quasi aspettando un gemito di dolore per il fastidio che sta provocando al grande uomo sotto di lui. Ma niente, nessun fremito. “Bene”, si dice, “ma allora posso fare di più… posso spingermi fin dentro le sue viscere, fargli sentire che da oggi in questa città ci sono anche io!!! Potrei attingere aria dai suoi polmoni e cibo dalle sue interiora. D’ora in poi apparterrò a questa città… mi spetta, no?”, e distrattamente si accende l’ennesima sigaretta, pensando già a quando, in prossimità delle vertebre lombari, si appresterà nuovamente a torturare questo gigante inerme calpestando quello che ne resterà. Il suo attaccamento morboso a questa città lo porta a volersi appropriare di tutto ciò che gli è possibile… il più possibile, poiché ormai da essa dipenderà il destino di tutta la sua vita e vuole consumarvisi insieme, senza tralasciare il più piccolo spazio o la via più nascosta. Si rende conto che una specie di animale lo sta divorando dall’interno in una sorta di amore-odio per una semplice città… D’altronde Ancona non è altro che una città… ma a lui non basta, non può bastare. Una città qualsiasi non avrebbe potuto stregarlo come essa è stata in grado di fare. Nonostante i molteplici tentativi, in nessun posto era riuscito a scappare davvero; quando per un motivo, quando per un altro, sinora il suo desiderio non era mai divenuto realtà. Finché non aveva pensato ad Ancona. E dal quel momento in poche ore il gioco era fatto. Deve essere molto di più di una semplice città. Infatti nessuno lo sa, ma lui si è accorto della presenza del gigante… e non ha intenzione di spargere la voce, anzi ha deciso di studiarlo approfonditamente e di scansionarne ogni piccolo particolare. D’ora in poi farà attenzione ad ogni passo che muove su di lui per capire se sia possibile riceverne una qualsiasi risposta. La gente qua gli ha parlato del terremoto del ’72, ma nessuno gli aveva detto del gigante. Ora gli è chiaro. “Anche lui ogni tanto ha diritto a muoversi, no?” pensa tra sé. La sua passeggiata prosegue alla volta dello spazio sottodiaframmatico occupato dal palazzo municipale mentre si staglia all’orizzonte quella grande piazza, la storica piazza Cavour: centro di vita, organo pulsante di una sessualità apparentemente sopita, ma in realtà viva e vistosamente presente, che si eleva al cielo, erigendosi in una statua marmorea di grandi dimensioni. Si sta avvicinando a quella magnifica erezione e, con un pizzico di curiosità, si domanda se una città apparentemente così fredda si sia mai accorta di possedere anche una sessualità tutta sua. Dentro di sé sta nascendo una voglia irrefrenabile per cui Giacomo vuole impossessarsi di questo gigante e di tutto quanto gli appartiene.
Ha caldo, la giornata è afosa. Il sole non splende netto nel cielo, una foschia è salita dal mare lungo gli arti inferiori e si sta spingendo ovunque, pervadendo ogni via. La fontanella di piazza Cavour gli ricorda la bile. Mentre ne attinge a piene mani si immagina tuffato nei liquidi biliari. Ne sente, schifato, il sapore, e si compiace. Pone ancora una volta le mani a ciotola per averne di più. Vuole saziarsi completamente dei suoi liquidi, di lui… Più ne avverte il gusto amaro e più si sente appagato. “Gli sto bevendo ciò che ha dentro… ormai è mio… come io sono suo… ” pensa, e continua sempre più freneticamente ad attingere liquidi dalle viscere del grande uomo. Il suo odio per questa città non ha fondamento, tranne che per un motivo, il più futile del mondo: un dissapore familiare lo ha costretto ad un allontanamento forzato nel primo posto che lo accogliesse con un lavoro adatto a lui. Da oggi. Tutti gli avevano parlato male di questa cittadina dorica, ma d’ora in poi Giacomo si sente parte integrante di essa, un po’ per forza, un po’ perché ormai ne condivide le viscere. Si passa le mani ai lati della bocca. Si figura nella fantasia sporco… intinto di una bava vischiosa e maleodorante. Ma questo gli piace. Si passa e ripassa le mani sul viso, toccandosi le sopracciglia con le dita, a scendere lungo le guance fino agli angoli della bocca, e centimetro dopo centimetro si studia, come se si toccasse per la prima volta nella sua vita.
Con la mente sta già volando a cosa sarà la sua esistenza in questa città algida e distaccata, quando da un’auto munita di megafono sente un comunicato strano e dai toni allarmistici. Si parla di una specie di inquinamento delle acque potabili sopraggiunto all’improvviso.
Una signora, attentamente all’ascolto, con gli occhi sbarrati lo guarda atterrita. Si ferma come immobilizzata e gli grida isterica: “Te nì non beve gniente, te che sì giovine! Qui morìmo tuti!!!”. “Ho già bevuto, signora”, sorridendo con un ghigno beffardo le replica Giacomo, e riprende la sua passeggiata lungo gli arti inferiori.
2. Camillo (racconto di Agnese Zammit)
Vorrei avere il becco
Per accontentarmi delle briciole
Concentrato e molto attento
Sì, ma con la testa fra le nuvole
Capire i sentimenti quando nascono e quando muoiono
Perciò vorrei avere i sensi per sentire il pericolo
… Più o meno come fa un piccione
(G. Povia)
Gli era sempre piaciuta questa città: aveva ampi spazi, pochi edifici che si abbarbicavano gli uni sugli altri; vista dall’alto era veramente uno spettacolo. Il centro storico disponeva di ampie piazze alberate e sui tre lati della città era visibile, fino all’infinito, il mare. Questo gli dava il senso di libertà che lo aveva da sempre legato ad Ancona. A volte, nelle giornate più limpide, si poteva godere di fronte al porto della vista della costa slava mentre, alle spalle del centro abitato, si poteva ammirare gran parte del gruppo montuoso dei Sibillini; l’alba ed il tramonto erano spesso eventi speciali con il sole che lentamente sorgeva e declinava nelle verdi acque che avrebbero magnetizzato chiunque, e lui non faceva eccezione.
Aveva volato molto e si era divertito parecchio. In Ancona era molto conosciuto: aveva tanti amici ma anche parecchi nemici, tuttavia godeva di una libertà e di una condiscendenza su cui, forse, colleghi di altre città non potevano contare ma, soprattutto, si era creato una fama, una posizione sociale e un ruolo a cui non avrebbe mai rinunciato. Tutti i bambini lo conoscevano come quello a cui non sfuggiva nulla e che riferiva ai genitori o ai nonni le loro marachelle: – Mi ha detto Camillo… che…. Attenzione a che cosa fai, poi lo sai che Camillo me lo dice! – Come lui ci riuscisse, per loro era sempre stato un mistero.
Gli operatori del Comune e alcune persone di buon cuore gli garantivano i pasti: la fame non sapeva neanche che cosa fosse mentre per la sete poteva disporre anche in piena estate dell’acqua di una fontanella a ciclo continuo; per la doccia bastava attendere i giardinieri che regolarmente innaffiavano le verdi aiuole, mentre per dormire disponeva degli ampi spazi degli archi presenti su un lato della piazza: insomma, veramente una bella vita!
Doveva il suo soprannome, Camillo, alla sua abitudine di fermarsi per lunga parte della giornata sulla testa di una delle statue più importanti della città: Camillo Benso Conte di Cavour, troneggiante candido ed enorme al centro della grande piazza che da lui aveva preso il nome.
Oramai non era più un pulcino, ma una Columba livia – meglio conosciuto da tutti come “piccione comune” -: un esemplare adulto con il piumaggio sfumato di tutti i colori tra il grigio e nero e con le piccole piume del collo di un bel verde cangiante. Un piccione anconetano da generazioni che, come diceva sempre tra sé, “godeva la bella vita, scorazzava nel cielo azzurro, conosceva tutto di Ancona e di tutti i suoi cittadini”, almeno di quelli che abitudinariamente frequentavano la sua zona.
C’era il pensionato che accompagnava il nipotino alle giostre, la casalinga che faceva il giro alle bancarelle, i giardinieri del Comune, gli adolescenti con quelle trappole con cui sempre giocavano e che disturbavano con le onde elettromagnetiche il suo senso di orientamento: “Da quelli era meglio stare lontani, a volte non guardavano neanche dove mettevano i piedi e se non era pronto a prendere il volo, rischiavano di schiacciarlo”.
Riusciva ormai a comprendere il periodo dell’anno ed il passare dei giorni attraverso i segnali che la città gli inviava: la variazione delle luci, il tipo di mercanzia esposto nelle bancarelle, il modo di vestirsi della gente. Il periodo che gli piaceva di più era però il carnevale: “un vero spasso!”. C’erano poi le cadenze della manutenzione della piazza e “quelle maledette notti di festa che lo rendevano isterico e non lo facevano dormire: la notte bianca, la festa della birra, il capodanno”.
Nonostante ciò viveva tranquillo e soddisfatto, d’altronde che cosa poteva pretendere di più?
Un giorno, mentre stava puntando una piccioncina niente male, sicuramente straniera (questo lo aveva capito da come scrutava intorno curiosa ed affascinata), notò una strana agitazione: le persone erano in allarme, correvano preoccupate come se avessero il fuoco alle spalle poi, tutto d’un tratto, arrivarono le autobotti del Comune e quelle dei pompieri: “Strano, non si sente odore di bruciato, non può essere un incendio e non ho sentito tremare il terreno come quell’anno terribile del terremoto: che cosa succede?”.
Cercò di farsi un’idea, si avvicinò a due anziani che, gesticolando animatamente, parlavano:
- Hai sentito, Mario? Non si può usare l’acqua dicono che sia inquinata…, questa sera viene mia figlia da Falconara e mi porta due taniche… speriamo che finisca presto!
- Ah, non credo Gina che finisca presto… – rispose l’uomo che si era avvicinato al grande cassone mobile dell’acqua – … ho sentito la radio e dicono che ci sia un gruppo di scienziati giapponesi che ci sta lavorando…
Camillo non riuscì a sentire la fine della frase perchè un ragazzo arrivò correndo ed i suoi riflessi lo costrinsero a prendere immediatamente il volo.
Partì raso terra per poi sollevarsi a qualche metro, si riposizionò sul capo di Cavour: “Questo non ci voleva!”.
Girò a scatti nervosi il collo così da osservare rapidamente tutta la piazza. Doveva capire meglio. Gli altri piccioni sembravano ignari di tutto ciò. “Doveva sapere, avere notizie certe…”. Riprese il volo, fece un rapido tragitto nella spina dei corsi: anche lì il caos. L’impressione che ne derivò fu di immenso pericolo. Pensò rapidamente poi decise: si sarebbe avvicinato al Baretto Azzurro, lì tenevano sempre la radio accesa.
Nell’indifferenza generale atterrò di lì a pochi metri e con le sue sottili zampette rossastre lentamente si avvicinò; non voleva ripetere l’errore: doveva contrastare il suo istinto di sollevarsi in aria quando arrivava qualcuno. Spostandosi di lato ogni volta che le persone si trovavano a marciare nella sua direzione, riuscì a sistemarsi vicino allo sportello dove i baristi servivano i clienti.
Non fu facile arrivare, ma ancora meno cercare di sentire. Un capannello di persone discuteva animatamente ed il barista ogni tanto interveniva, soprattutto quando gli chiedevano acqua o caffé. Gli bastò un minuto per comprendere, il tempo che la voce della scatola nera dicesse:
“Interrompiamo le trasmissioni per una notizia che giunge ora in redazione. I normali controlli dell’acqua potabile, effettuati a campione dall’azienda municipalizzata dei servizi di Ancona, in collaborazione con l’ARPAM, Agenzia Regionale per l’Ambiente, hanno isolato in alcune zone della città un agente batterico sconosciuto. Al momento sembrano escludersi sia la tossicità di tale agente per le persone che eventuali possibilità di contagio. L’ équipe del premio Nobel giapponese per la biologia, Haruki Horyama, coinvolto dalle autorità sanitarie, si sta già occupando degli accertamenti del caso tramite collegamento in videoconferenza con gli esperti della clinica di Biologia dell’Università Politecnica delle Marche. L’azienda municipalizzata si scusa per le eventuali interruzioni del servizio di erogazione idrica. Ecco ora alcuni consigli del Ministro della Protezione Civile su come comportarsi: “Non c’è motivo di allarmarsi. In attesa degli esiti definitivi degli esami di laboratorio, è comunque consigliabile bere solo acqua imbottigliata. Evitare, in ogni caso, il contatto con la pelle, i capelli e qualsiasi tipo di inalazione.” Erano tutti nei guai, gli anconetani e anche loro piccioni. Si sentì attanagliare dall’esigenza di fare in fretta: “Qualsiasi cosa, ma in fretta…”.
Ripartì a razzo, rischiando anche di speronare una corriera che stava arrivando. Riuscendo a malapena a schivarla, ritornò sopra Cavour ed iniziò a mandare un segnale potente a tutti i suoi amici. Nella piazza risuonò ripetuto il suo: – Glu-glu, glu-glu, glu-glu…
Gli altri piccioni lo videro scendere ed atterrare nello spazio verde di un’aiuola laterale: Camillo aveva chiamato tutti per una riunione urgente.
Nel giro di pochi minuti un centinaio di piccioni erano accorsi allarmati e, man mano che i minuti passavano, ne arrivavano altri provenienti da zone limitrofe. Conoscevano Camillo, “di lui si potevano fidare”: se li aveva chiamati la cosa doveva essere importante!
Solo pochi altri volatili erano rimasti a presidiare le loro abituali zone, essi avevano infatti un compito preciso: contrastare le incursioni aggressive dei corvi con cui ormai da anni erano in guerra.
I corvi, qualche anno prima, erano stati acquistati e liberati in Ancona dal Comune, con lo scopo di contrastare la prolificità dei piccioni stessi. Alcuni avevano legato con il nemico ed erano nati pulcini mezzosangue, quasi perfettamente integrati nella comunità, ma la maggior parte dei corvi faceva rapide e feroci incursioni, distruggendo le uova e appropriandosi poi dei nidi, dopo aver sfrattato a beccate l’indifeso proprietario.
In quel momento, con le poche sentinelle rimaste, avrebbero potuto rischiare un attacco in massa.
“Ma Camillo aveva chiamato… probabilmente c’era in ballo qualche cosa di ancora più grave!”.
Dalla piazza vicina, Largo Cappelli, un nutrito gruppo di corvi li osservava.
Il loro capo era “Il Nero”, un Corvus frugilegus o corvo comune, un uccello astioso e senza scrupoli che aveva come unico scopo distruggere e assalire; da sempre odiava quegli stupidi piccioni che passavano la vita “a non fare nulla, coccolati da tutti, serviti e riveriti”. La sua missione, ufficialmente datagli dalle autorità anconetane, era chiara: ridurre il numero dei piccioni e colpirli, per lui un vero divertimento. Per la sua crudeltà e determinazione, già in tenera età era divenuto il capo degli stormi neri e gli altri dovevano a lui i numerosi successi. Il gioco fino a quel momento era stato semplice: i piccioni, che non avevano né la testa né il cuore di creare strategie di gruppo, infatti avevano sempre perso la partita. Le uniche disfatte il Nero le aveva registrate nell’ambito portuale, ma poi aveva imparato: lì il territorio era difeso dai gabbiani, troppo forti e troppo organizzati.
Quel giorno il Nero mandò in avanscoperta un luogotenente allo scopo di disperdere la riunione di Camillo e di sfidarlo: era convinto che questo sarebbe bastato a quegli stupidi piccioni per togliere loro la voglia di organizzarsi.
Camillo intanto spiegava al suo stormo la situazione. Dovette ripeterla più volte sia per farne comprendere bene la gravità sia per quelli che man mano stavano ancora arrivando.
- L’acqua è inquinata, non si può né bere né entrarci in contatto, quindi se ci tenete alla vita evitatela! Ma ricordate che basta allontanarsi a cinque minuti di volo da qui e troverete tutto tranquillo. Quindi attenzione a voi e ai vostri piccoli!
Mentre diceva ciò, un corvo volò rasente le loro teste per intimidirli e sconvolgere la riunione. I piccioni non si mossero. Allora, lanciando nell’aria i suoi crack di sfida, il corvo si andò a posare sul bordo della fontanella e, sfidandoli, iniziò a bere.
Pochi secondi e fu scosso da un tremito: le ali piegate innaturalmente, il collo contorto dagli spasmi, stramazzò a terra.
Se i piccioni lì riuniti avessero mai avuto dubbi su ciò che Camillo aveva detto loro, questo li convinse immediatamente del mortale pericolo che correvano.
Si divisero in squadre: alcuni avrebbero garantito la sorveglianza dei nidi; altri si assunsero il compito di avvisare i loro colleghi nei vari quartieri della città ed impedire una strage; un buon gruppo, invece, decollò alla volta del Molo Sud e un altro verso la scogliera del Borghetto del fronte del Porto, con l’obiettivo di informare i gabbiani, da sempre compagni di avventure. La zona del Porto, infatti, era occupata dai bianchi uccelli perché ricca di pesce e granaglie. I gabbiani non avevano mai avuto nulla da ridire se qualcuno dei piccioni, nei periodi di magra, andava allegramente a becchettare e banchettare nei loro piazzali il mais fuoriuscito dagli enormi silos che svettavano al limitare del porto. La missione di questo ultimo gruppo, poi, si completava con una richiesta di aiuto: in quel particolare momento, contro i famigerati corvi, la stazza dei gabbiani era un arma vincente, infatti più volte messi alle strette gli uccellacci neri avevano dovuto battere in ritirata e rinunciare alle loro incursioni.
Camillo si guardò intorno: erano rimasti in pochi, il più era fatto, ma un pensiero non lo abbandonava. Aveva davanti agli occhi il corpo ormai inerte del corvo e un campanello di allarme gli suonava ancora in testa: “La fontanella era incustodita e l’acqua ancora scorreva, probabilmente anche le altre fontane della città funzionavano regolarmente”. Mentre meditava la cosa, vide un vigile urbano posizionare delle transenne intorno alla fontana con un segnale di pericolo – “Forse non sarebbe bastato! E se giovani o bambini, cani o gatti avessero ignorato il divieto? Doveva fare qualche cosa!”.
Quindi dopo un’accorata discussione decisero: ognuno di loro avrebbe preso in consegna una fontana e a colpi di becco – e a rischio della propria incolumità – avrebbero allontanato chiunque.
Partirono in missione. Ognuno aveva chiara la destinazione: la fontana di Piazza Cavour, quella dei Cavalli a Piazza Roma, la Fontana nuova di Piazza Diaz, ma ben tredici di loro si piazzarono in Corso Mazzini, uno per ogni bocca della Fontana del Calamo. Camillo si prese la prima, quella ad angolo sul limitare della scalinata di Via Zappata; avrebbe faticato di più a controllare due fronti, ma lui era il capo e si sarebbe preso questa responsabilità. Intanto era giunta l’ora del tramonto, quella notte l’avrebbero tutti passata all’addiaccio.
Il caotico traffico di persone lentamente andò scemando man mano che il buio della notte avanzava. Ora sembrava quasi tutto tranquillo, nella zona erano rimasti solo i volontari ed i pompieri a presidiare le scorte di acqua. Anche la fila di persone andò disperdendosi, la gente rientrava pensierosa a casa portando con sé i più improbabili contenitori pieni del liquido ormai divenuto prezioso.
Non riusciva a dormire: la tensione della giornata, l’impegno di un continuo controllo lo tenevano costantemente in allarme, ma soprattutto aveva sete! Sentire e vedere l’acqua fresca che sgorgava dalla bocca del mascherone era un invito quasi irrinunciabile, ma il suo colore giallino ed il forte odore di acido stantio avevano il dono di ricordargli che la morte gli scorreva accanto.
Era ormai da tempo che aveva adocchiato le piccole pozze di acqua raccoltesi sotto i rubinetti dei pompieri, fece un segno agli altri e dopo un breve volo si avvicinò. Il ragazzo di guardia stava sonnecchiando cercando di far passare più rapidamente le lunghe ore notturne, Camillo riuscì a bere e così a turno fecero anche gli altri.
Nel Corso non c’era movimento, gli interventi di difesa che li avevano impegnati erano stati, fino a quel momento, pochi e mirati soprattutto ad evitare a gatti randagi e solitari di dissetarsi: dopo averli allontanati dall’acqua a colpi di becco ed agitando forsennatamente le ali come per aggredirli, i piccioni li indirizzavano verso le pompe di acqua potabile, dove potevano dissetarsi in sicurezza.
Il loro bioritmo, comunque, diceva che dovevano dormire. Un glu-glu agli altri e comunicò che avrebbe fatto lui il primo turno di guardia. Li vide nascondere il capo sotto l’ala e finalmente abbandonarsi ad un sonno ristoratore.
I minuti passavano lenti, sopra la sua testa solo i cerchi concentrici dei pipistrelli, padroni incontrastati della notte, e quelli più lievi delle falene, che prediligevano la gialla fonte di luce dei lampioni. Sembrava tutto tranquillo. Iniziò a rilassarsi, in attesa che la pallida alba schiarisse il cielo verso il Passetto.
Poi, all’improvviso, udì come un rullo di tamburi, che si faceva sempre più forte e più cupo, interrotto solo da sgraziate grida: krah’ krah’. Centinaia di corvi piombarono su di loro in un attacco forsennato, e l’attacco era guidato da una sua vecchia conoscenza, il Nero, che aveva lanciato le sue truppe contro di lui ed i suoi amici con il chiaro scopo di eliminarli.
- Ci mancava solo questo! – Camillo lanciò il suo grido di allarme e all’unisono dodici dei piccioni presero il volo cercando di sfuggire al massacro. Trovarono rifugio tra gli alberi della piazza, vicinissimi al cassone dell’acqua – forse la presenza degli uomini di guardia avrebbe scoraggiato quei maledettissimi corvi -; il tredicesimo era in preda al panico ma, grazie alla confusione ed alle strategie pianificate, non visto si infilò un vicolo e si diresse verso il porto.
Il piccolo gruppo si ritrovò impotente al centro di un carosello: i neri uccelli volavano concentrici intorno al loro albero – non c’era fretta, loro potevano aspettare.
I ragazzi di guardia improvvisamente risvegliatisi guardavano la scena da incubo senza poter fare nulla ma con una domanda inquietante: – Che cosa stava accadendo?
I corvi non erano mai stati ben visti dai cittadini di Ancona perché il loro verso gracchiante e ripetuto all’infinito tormentava le loro giornate riaccendendo ricordi lugubri: gli anconetani erano sinceramente convinti che essi portassero sfortuna.
I ragazzi della sorveglianza erano solo in quattro e tutti molto giovani, ma non si fecero scrupoli a iniziare un tiro al bersaglio: lanciarono sassi, lattine vuote o qualsiasi cosa capitasse loro a tiro, ma lo stormo sembrava aprirsi al passaggio degli oggetti e richiudersi subito dopo come se non fosse successo nulla.
I piccioni, con il cuore impazzito dalla paura, le piume arruffate e strappate dalle fronde pungenti delle acacie, erano ben nascosti nel profondo dei rami. Comunque per ora erano salvi, ma bloccati; sentivano i corvi irriderli per la loro nullità.
Poi il cielo si tinse dei confusi colori dell’alba e la scena divenne un incubo ancora peggiore: un’impazzita nuvola nera roteava sempre più stretta intorno a quell’albero.
Nella piazza, intanto, si era radunato un piccolo capannello di persone: spazzini soprattutto, ma anche qualche panettiere, un paio di infermieri, alla fine erano giunti anche i pompieri. Tutti rimanevano gelati nel vedere la scena: alcuni ammirati, altri inorriditi, qualcuno immortalò la scena con un MMS, tutti dovevano sapere!
Camillo e i suoi compagni, pur nella rabbia, non potevano far nulla: il loro istinto non era mai stato feroce e non avevano armi per difendersi.
Fino a che, all’improvviso, dalla piazza qualcuno indicò un punto alto nel cielo in direzione del porto: lì era comparsa una piccola, compatta ed alta nube che, animata da una propria volontà indipendente dal vento, si stava avvicinando veloce.
Sembrò virare e puntare su Piazza Roma, per poi prendere la forma di una freccia e scendere in piena velocità. Camillo, che dal suo punto di vista non riusciva a vedere nulla sia per le foglie che per il muro di corvi che gli girava intorno, si allarmò ancora di più; i suoi glu-glu, che già si erano notevolmente affievoliti con il passare dei minuti, si spensero in un ansito di angoscia e paura. Che cosa stava ancora accadendo? Se arrivavano altri corvi, i rinforzi, per loro era finita! Pensò alla sua compagna, ai suoi pulcini, ai suoi amici di piuma e ai numerosi bambini che tutti i giorni venivano a salutarlo in Piazza Cavour.
Vide la gente disperdersi correndo ai quattro lati della piazza, nascondendosi dove poteva, o allontanarsi rapidamente e definitivamente verso il Corso Mazzini, scappando dalla tragedia che sembrava calare su quell’angolo della città.
Invece, all’improvviso, un folto gruppo di grossi uccelli bianchi, con le ampie ali accostate al corpo, come piccolo siluri, il grande becco affilato in fuori, virò scendendo in picchiata sulla nuvola nera dei corvi, attaccandoli.
- I gabbiani! Siamo salvi!
I grandi uccelli ci misero poco a disperdere il nemico che, ferito ed impaurito, batté in una precipitosa ritirata.
- Non finisce così, ci rivedremo! – fu l’ultimo sibilante rrrah, un grido furioso che il Nero lanciò in sfida a Camillo. Detto ciò e sfogata la sua rabbia contro il casco di un pompiere, riprese quota e si allontanò verso il suo quartier generale nella zona più antica di Ancona.
Dalla piccola folla, sollevata, salì un lungo applauso all’indirizzo dei gabbiani. Camillo e i suoi compagni emersero lenti e spaventati dai rami, guardandosi attorno sotto shock. Sembrava tutto a posto, ma che paura! Dopo un breve sguardo di gratitudine rivolto ai loro amici, si unirono a loro: dovevano compattare le forze, solo così avrebbero vinto!
Intanto nelle vasche della fontana erano rimasti molti corpi neri a galleggiare, quelli dei corvi che avevano sfidato arroganti il divieto: a quel punto a tutti, anche alla gente, fu chiaro il pericolo che quel giorno l’acqua rappresentava.
Gli anconetani ricordano ancora quell’episodio che viene raccontato anche ai bambini, ma Camillo non è più il “piccione spione” bensì un uccello dolce ed altruista che ha rischiato la vita per la sicurezza di tutti.
I gabbiani, poi, sono da tutti riconosciuti come uno dei simboli della città: sentinelle silenziose e candide che esisteranno fino alla fine dei tempi, per ricordare; infatti, a chiunque si trovi a passare per la Via Flaminia, basta rivolgere lo sguardo alla lunga scogliera frangiflutti dove una serie infinita di grandi uccelli bianchi, come un potente e ben schierato esercito, sta di sentinella con il capo ed il becco rivolto al sorgere del sole in direzione del porto e della città. Ma questa è solo una delle tante storie di cui furono protagonisti i piccioni e i gabbiani di Ancona.