L’Eremita (di Massimiliano Belvederesi)
Correva il sesto autunno del ventunesimo secolo. Mancava un solo mattone per completare l’opera di isolamento della città. L’ultimo grande mattone di un muro che non permise più ad Ancona di sentirsi figlia del mondo. I pochi cittadini rimasti guardarono impotenti e con lacrime agli occhi lo svolgersi delle operazioni. Il baluardo di pietra era alto poco più di dieci metri e lungo settantasei chilometri. Nella parte superiore fu fissato ed intrecciato un fitto filo spinato. Forse è solo un’espressione comune dire che la storia si ripete, ma quella costruzione ricordava tanto la muraglia cinese. Qualche anziano signore, invece, rimembrando gli anni del dopoguerra paragonò Ancona a quella che fu Berlino. La metropoli tedesca fu divisa per due grandi e differenti correnti politiche, mentre la piccola città dorica fu isolata per colpa di un eccezionale batterio. Accadde tutto in pochi mesi.
Nel Gennaio del 2006, l’unità sanitaria riscontrò nell’acquedotto un microrganismo mai visto prima d’allora. Immediatamente fu proclamato lo stato di allarme. I media tranquillizzarono gli abitanti minimizzando all’osso gli eventi. Un noto quotidiano locale citò in prima pagina testuali parole: “Il Nobel giapponese e padre dell’idrochimica Tagamasciu sarà presto nella città dorica perché appassionato di vincisgrassi”.
Dopo che una decina di persone che avevano accidentalmente bevuto acqua si ammalarono con febbre altissima, nessuno credette più a radio, TV e giornali. Il sintomo che preoccupò maggiormente la gente, però, non fu tanto la febbre alta quanto il morboso desiderio di spifferare le verità nascoste. I medici la definirono “Sindrome della Coscienza”. Sembra che il batterio colpiva fortemente alcuni punti cerebrali collegati in qualche modo con il senso di colpa. Tra le decine di persone infette, tutte ricoverate all’ospedale di Torrette, c’era un famoso assessore che continuava a raccontare di quando aveva truccato le elezioni. Nella stessa camera, un macellaio narrava dei venti grammi in più che indicava la sua bilancia. In mezzo ai due uomini c’era una tollerante ragazza che asciugava le lacrime al suo futuro sposo reo confesso di una dozzina di tradimenti.
Appena furono chiare ai governanti le conseguenze di questo singolare batterio, essi decisero di innalzare la grande muraglia a terra e la grande scogliera a mare. Grazie a macchinari di straordinaria tecnologia, si costruirono le due strutture in soli otto-dieci mesi. Per evitare pericolosi scontri tra i cittadini e le forze dell’ordine si pensò di agire in maniera molto democratica. Gli anconetani, infatti, potevano scegliere di rimanere o meno all’interno della propria città. Quelli che optavano per la cosiddetta “fuga”, venivano sottoposti ad accurate analisi. Chi non risultava affetto dal germe dell’acqua veniva dichiarato libero, altrimenti abbandonato al proprio destino ed alle proprie verità all’interno delle mura.
Ancona fu l’immagine dei primi decenni del 2000. Un periodo in cui il mondo viaggiava senza limiti di corruzione e menzogna. Non esistevano veri valori. La società non aiutava chi aveva bisogno. Gli ammalati venivano emarginati. I più poveri ed i vagabondi erano giudicati inutili e venivano depositati in “cantina” a prendere polvere come superflue cianfrusaglie. Gli anconetani fedeli, quelli che avevano scelto di rimanere, non avevano niente da nascondere. Erano persone per bene che basavano la loro vita sull’onestà sulla lealtà, sulla cura ed il servizio del prossimo. Non erano molti. Circa duemila. Pochi ma buoni. Nonostante le oscure conseguenze delle forti febbri legate all’acqua, essi avevano scelto ugualmente di continuare a vivere in compagnia dei rinoceronti di Piazza Pertini, dei cavalli di Piazza Roma, delle tredici cannelle che, anche se erano state azzittite, a loro modo raccontavano sempre qualcosa. Non si erano voluti privare della quiete del Monte Conero e del calore della campagna circostante. Non avevano voluto rinunciare ad ascoltare la voce del mare quando accarezza l’incantevole baia di Portonovo. Mancava l’acqua potabile ed una decina di persone s’erano ammalate, è vero, ma i più ottimisti confidavano in San Ciriaco, che da sempre aveva tenuto il capoluogo sotto le sue braccia protettrici.
Proprio davanti all’altare del Duomo di San Ciriaco, sostava inginocchiato un calzolaio di quarant’anni. Si chiamava Umberto. Era un uomo umile come umile era il suo mestiere. Pregava con enfasi da almeno un’ora. Suo figlio, il piccolo Luca di soli quattro anni, aveva accidentalmente bevuto l’acqua. In preda a febbre altissima, era stato ricoverato all’ospedale di Torrette. Molti medici, o meglio, presunti medici, avevano lasciato la città. I migliori però, quelli che consideravano la loro professione come una missione, erano rimasti. Umberto aveva da sempre coltivato la preghiera. Sapeva bene che la religione non è una bacchetta magica, non la si può tirare fuori solo al momento del bisogno. In tarda serata l’uomo uscì dalla chiesa. Nel cortile antistante notò un albero. Il sole, che stava andando a compiere il suo lavoro nell’altro emisfero, creava un alone luminoso lungo il profilo della pianta.
Era un Corbezzolo, tipico vegetale e simbolo del Monte Conero. Raccolse e mangiò un paio di frutti. L’immagine dell’arbusto ed il sapore dolciastro dei corbezzoli gli portò alla mente l’uomo con cui li aveva mangiati per la prima volta. Erano trascorsi vent’anni da quel giorno.
Passeggiando per i sentieri del Conero, Umberto, allora ventenne, incontrò un anziano signore che stava raccogliendo frutti di bosco. Ammaliato dal suo sguardo carismatico, Umberto mangiò alcuni frutti che l’anziano signore gli porse nella mano.
Qualche anno più tardi sentì parlare di lui alla televisione, proprio in occasione dell’acquedotto di Ancona.
L’uomo, un eremita del Monte Conero, era un rabdomante e aveva scoperto una sorgente vicino alla grotta in cui viveva. Grazie a quel ritrovamento si costruì un acquedotto che forniva acqua alla sola città di Ancona. La stessa acqua che ora risultava contaminata. Umberto pensò che quel ricordo potesse essere un segnale. Decise di andare a cercare Pietro il rabdomante. Non c’era tempo da perdere. Quella stessa notte partì con l’indispensabile per raggiungere il romitorio di San Benedetto dove Pietro viveva da più di trenta anni.
Giunto alla cava di Massignano in bicicletta, Umberto sostituì le sue gracili e magre gambe alle due ruote. Salì con affanno lungo il sentiero immerso nel bosco. Il tempo passava e le energie diminuivano, al contrario della luna che più saliva incontrastata e più la sua luce diventava forte. La saggia signora del cielo, da sempre amica degli uomini, illuminava ad Umberto la strada da percorrere. Dopo un’ora l’uomo arrivò nello splendido e panoramico pianoro di Pian dei Raggetti. Si fermò ad ammirare il paesaggio. Scorse la lunga muraglia. Le lacrime gli bagnarono il viso. Erano lacrime che parlavano del piccolo Luca. Il suo dolce bambino. Un alito di vento fece scricchiolare i rami di un pino plurisecolare. Umberto si volse verso l’albero e domandò: – Quante malvagità hai veduto da qui? Di quante orrenda e brutali gesta sei il testimone? Non sei ancora stanco di assistere alle crudeltà dell’uomo?.
Il pino scricchiolò ancora. Il calzolaio riprese il cammino verso la grotta di San Benedetto.
Accompagnato da strilli di rapaci notturni attraversò il folto bosco fino a Pian Grande e successivamente a Belvedere nord. Da qui il percorso si faceva ostico. Intanto il cielo si stava preparando ad accogliere il sole. Stava nascendo un nuovo giorno. Umberto, dopo qualche ruzzolone nei ciottoli instabili, riuscì ad arrivare alla grotta. Con qualche graffio, ma arrivò.
Alla sinistra dell’entrata c’erano due grosse terrazze che ospitavano ortaggi di ogni genere. Alla destra una grande catasta di legna faceva da cornice ad un forno. Tutta la zona di fronte era delimitata da una staccionata di leccio, oltre la quale c’era uno strapiombo mozzafiato sul mare. L’alba dipingeva lunghe ombre sul terreno. Umberto entrò con una certa esitazione nel romitorio. Rigorosamente in punta di piedi. Non voleva portare rumori inconsueti ad un uomo che da anni ascoltava solo la voce della natura.
Seduto su un letto di paglia e appoggiato ad una parete della grotta dormiva Pietro. Aveva la barba bianca e lunga. I capelli, anch’essi bianchi, erano legati e formavano una coda che scivolava lungo tutta la schiena. Le profonde rughe sul viso gli donavano un certo fascino. Le mani logorate erano sinonimo di manovalanza. Umberto lo osservò in un’atmosfera di incantevole silenzio. Poi, all’improvviso, come un tuono che solca il cielo trillò il cellulare. Pietro non si scompose ed aprì gli occhi lentamente. Umberto sovrastato da uno scoppio di incomparabile imbarazzo uscì dalla grotta ammutolendo l’apparecchio.
L’anacoreta, intanto, sempre con movimenti fluidi lo raggiunse. Umberto con lo sguardo di un cane quando fa un torto al padrone sillabò: – Mi scusi, hem, ecco io…
- Ti aspettavo! – lo interruppe l’uomo dalla barba lunga. Il calzolaio alzò gli occhi sorpreso. L’eremita continuò: – Se di un bosco che si ammala irrimediabilmente rimane sano solo un albero, lascia che viva solo quell’albero. Tu sei un fiore della pianta rigogliosa.
Umberto ascoltava ammaliato, ma nello stesso tempo perplesso. L’anacoreta gli si avvicinò e gli porse nella mano un trinciato di erbe secche. Indicando poi una vecchia gerla disse: – Là dentro ho preparato queste erbe per te, portale in città. Basta un decotto ed i fiori come te potranno essere annaffiati senza perdere petali. Corri che a volte il tempo è un gran nemico.
Umberto si caricò rapidamente la gerla sulle spalle e ringraziando si incamminò.
Durante tutto il ritorno pensò molto alle parole di Pietro, cercando di intuire ciò che esse mascheravano. Giunto sulla collinetta del Monte spaccato, si fermò un attimo ad osservare la città dall’alto.
Quella veduta panoramica portò il sereno nella mente di Umberto. Fissò lo sguardo sulla muraglia. Capì che divideva l’albero sano dal bosco irrimediabilmente ammalato. Sentì con fierezza di essere un fiore incontaminato. Continuò a contemplare. Con un’ottica diversa. Quella linea di mattoni non isolava Ancona dal mondo, ma il mondo da Ancona. Riprese veloce il cammino. Giunse ben presto dal suo fiorellino innocente. Il piccolo Luca bevve il decotto. La febbre scomparì.
Nell’arco di pochi giorni il vaccino di erbe fu bevuto da tutti i duemila anconetani. Grandi quesiti aleggiarono per qualche giorno nella mente di Umberto. Come faceva l’eremita ad essere a conoscenza di tutto? Come poteva sapere che quelle erbe avrebbero immunizzato il batterio? Con il pretesto di ringraziare il saggio uomo del Monte Conero, decise di raggiungerlo di nuovo.
Pensò bene di fargli omaggio con una bottiglia di buon vino. Entrò in un ristorante e, nell’attesa di essere servito, vide un elegante signore che aveva difficoltà con la lingua.
Era un giapponese, che seduto al tavolo, chiese al cameriere, con un inglese dal forte accento asiatico, cosa fossero i vincisgrassi. Il servente glieli mostrò. Il nipponico dopo averli veduti, ordinò un riso in bianco.
Intanto Umberto comprò una prestigiosa bottiglia di vino.
Il giorno dopo, di buon’ora, raggiunse ancora una volta la grotta di San Benedetto. Entrò con il cellulare spento. Pietro era indaffarato a sminuzzare funghi.
- Buongiorno! – ruppe il silenzio Umberto. – Buongiorno a lei! – replicò Pietro, che aggiunse: – Sapevo che saresti tornato, la curiosità è figlia dell’uomo. Piuttosto dimmi com’è la situazione giù in città?
- La situazione è magica – rispose Umberto.
Pietro fece un ghigno di soddisfazione, mentre continuava il suo lavoro con i funghi secchi.
- Si va tutti d’accordo, – continuò Umberto – abbiamo riscoperto il lavoro nelle campagne. Si lavora con interesse. Giriamo a piedi o in bicicletta. C’è un grande senso civico.
Pietro con un sorriso liberato dall’anima disse: – Bene, mi fa piacere.
Poi indicò i funghi secchi davanti a lui e aggiunse: – Questi figli della terra sono Amanite Veritierus e crescono solo qui a Monte Conero. Sono molto rari e nessuno li conosce.
- Si possono mangiare? – domandò il calzolaio.
- Non sono velenosi ma tossici e dona ai fiori febbre alta ed un forte desiderio di aprire i petali ogni qualvolta li hanno tenuti chiusi.
- Vuole dire un forte desiderio di dire la verità nascoste? – chiese maggiori spiegazione il calzolaio. – Proprio così, – rispose l’anacoreta, che concluse: – questi funghi possono essere neutralizzati solo con le erbe di cui ti ho fatto dono. A cinque minuti da qui c’è la grande sorgente che annaffia tutta Ancona e …
- Ho capito tutto! – interruppe Umberto che abbracciò Pietro per un attimo e lo salutò dicendo: – Torno in quell’oasi felice che hai creato. Grazie!
Quell’oasi felice ha navigato fino ad ora in un mare pulito, fuori da un oceano sempre più peccaminoso.
Oggi, 15 Maggio 2036, è l’anniversario della morte di quell’uomo sapiente che ha permesso tutto ciò.
Un lungo pellegrinaggio di anconetani stanno recandosi nella sua tomba di fronte alla sua grotta per aprire i loro petali e ringraziarlo ancora una volta per quel profumo che ancora oggi essi emanano.