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Archivio della Categoria 'Taccuino di Viaggio'

Da Civitavecchia, un pesce rosso… fuor d’acqua!

lunedì 9 giugno 2008

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“Ad una manciata di metri da una Civitavecchia che tornava a prendere forma, lontano dagli schiamazzi della gente nuovamente in piazza, presa a divincolarsi tra i banchi del mercato, tra la policromia delle verdure e i bracci rilucenti delle stadere sulle quali venivano poggiate manciate di alici avvolte nella carta straccia a novanta lire il chilo, casse di mazzumaja o pannocchie ancora vive e scodinzolanti, Michele affondava i polpacci nudi nell’acqua limpida e fredda. Impugnando un bastone appositamente diviso in due ramificazioni sulla cima, cercava tra i ciottoli levigati il nero spinoso bozzolo del riccio di mare. Quando ne scorgeva uno, con cura lo raccoglieva e riponeva nella bagnarola. Quando la cesta era piena, tornava a sedersi sulla spiaggia, dove il parentado aveva già stappato i fiaschi e affettato il pane. Mangiavano e ridevano cercando di dimenticare gli orrori della guerra, e succhiando il riccio era come se portassero dentro di loro l’essenza del mare intero, lo spirare del vento che tutto rievoca e tutto fa dimenticare. Il sapore salino dei crostacei si fondeva, a volte, con quello delle lacrime per chi o cosa s’era perso. Poi, quando la tramontana si alzava pungente, s’incamminavano verso casa, non senza essere prima passati da zi’ Giulietta al Ghetto per comprare il bujone da gustare a mestolate possenti dopo cena” [Fabrizio Gabrielli, L’inafferrabile Weltanschauung del pesce rosso, Prospettiva Editrice, Civitavecchia 2008].

Bel libro d’esordio, quello di Fabrizio Gabrielli: coinvolgente carrellata di racconti leggeri e profondi al tempo stesso, con una polifonia di tematiche, personaggi e sguardi, tenuti insieme da uno stile ancora mutevole e guizzante, ma di sicuro talento.
È un vero piacere per RaccontidiCittà poter dire del percorso di questo Autore: “anche noi c’eravamo!”.

L.S. (che, seduto alla destra dell’Autore, il 23 Maggio ha partecipato alla presentazione del libro in questione) 

“La ventisettesima città”

giovedì 13 marzo 2008

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“E se la città fosse lui? Ancora più che situato al centro: la cosa in se stessa?
Nato negli anni più bui della Depressione, si era fatto strada a forza di spallate fino a raggiungere un certo grado di luminosità, demolendo, spianando e costruendo più in alto, costruendo l’Arco, costruendo complessi di natura avveniristica e, al tempo stesso solidi, gli anni d’oro di Martin Probst. Dentro, tuttavia, era malato, e anche la città era malata dentro, strozzata da ragioni non digerite, tormentata dalle menzogne. La cospirazione invadeva la circolazione centrale sanguigna della città mentre lasciava intatte le superfici, impazziva intorno a lui e dentro di lui mentre lui stava seduto, in apparenza invisibile, non considerato, non coinvolto, eppure lì, ben presente, nell’identificazione della sua vita con la vita della città, al punto da vedersi inghiottito in essa. Più era una figura, meno era una persona. Più completa era tale identificazione, più completamente lui veniva escluso”
[tratto da Jonathan Franzen, La ventisettesima città, Giulio Einaudi editore SpA 2002].

Con l’arrivo del nuovo, carismatico capo della polizia, S. Jammu, indiana di Bombay, l’apatica St. Louis dipinta da Franzen (autore, fra gli altri, dei romanzi Strong Motion e Le correzioni, Einaudi 2002) comincia in (troppo?) poco tempo a rifiorire: “St. Louis era arrivata alle luci della ribalta. Aveva curato i suoi mali. Contro ogni previsione e probabilità, stava diventando qualcosa di grande.
I profeti locali erano al ventisettesimo cielo.
Ma la città? La sua autocommiserazione e autoesaltazione? Quella parte di sé che non dimenticherà e che aveva chiesto: perché noi?
Era morta. La prosperità, Jammu e l’attenzione della nazione l’avevano uccisa. Ormai St. Louis era un’altra storia di successo, felice nel modo unidimensionale di tutte le città prospere. Se mai aveva avuto qualcosa di straordinario da dire al Paese, qualcosa per ammonirlo o ispirarlo, ora non c’era più”.

Perché per le città, così come per le persone, il raggiungimento dell’apice non è che l’inizio della parabola discendente.
Finisce per comprenderlo bene Martin Probst, probo abitante di St. Louis nonchè costruttore dell’Arco, suo orgoglio edilizio e simbolo della città del Missouri: “… vide la città. Era St. Louis. L’Arco stava enorme, immobile su uno sfondo di foschie a colori vivaci. Era St. Louis. Era la città teatro dei sogni di tutta la sua vita [...]; la città che non aveva mai smesso di ricordare e immaginare: era proprio la città, ed era completamente diversa dalla città che aveva in testa, anche se identica nei particolari; completamente integra, poiché la realtà schiacciava i singoli punti di riferimento”.

S.S. (che, in omaggio alla sua città, ha accompagnato a questo testo le rielaborazioni di una foto dell’Arco di Traiano di Ancona)

Parigi vista da dentro

mercoledì 13 febbraio 2008

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Dal 13 Febbraio al 4 Marzo 2008 si terrà presso La Torre Galleria d’Arte Moderna a Milano la mostra fotografica Paris Metro, “le quatorze âmes” di Guido Maria Ratti.

Il titolo della mostra nasce da un progetto ideato e realizzato dall’artista durante un soggiorno di quindici giorni a Parigi, percorsa nelle sue quattordici arterie sotterranee per documentare il multiforme mondo metropolitano: gli incontri, gli attimi, i clochard, i musicisti ambulanti.

Dal complesso lavoro di ricerca del giovane artista milanese sono stati selezionati circa cento scatti, a loro volta assemblati e rielaborati digitalmente in tredici fotografie panoramiche suddivise su tre livelli.

Si tratta di un lavoro d’indagine attraverso i così detti “non luoghi”, che Guido Maria Ratti continuerà ad analizzare in modo sociale ed etnografico all’interno delle varie metropolitane del globo, prendendo in considerazione anche altre realtà, territori umani di incontro, di scambi, di aggregazione o di semplice passaggio come gli autogrill, i centri commerciali o i monumenti che richiamano un ampio numero di persone.

S.S.

(Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione del materiale fotografico)

“Liquid Inspiration”

giovedì 20 dicembre 2007

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Si tratta del titolo di un gustoso – è proprio il caso di definirlo così – servizio pubblicato da Forbes Traveler su dieci famosissimi bar letterari sparsi in tutto il mondo. L’articolo è corredato da un’accurata presentazione di diapositive che ci immergono nelle suggestive atmosfere delle varie città che hanno fatto compagnia – insieme a qualche bicchiere, certo – a grandi scrittori di tutti i tempi.

E così, aprendo le danze con una pinta offerta da Joyce al Davy Byrnes – fra l’altro è uno dei migliori pub della città – di Dublino, passando con scioltezza a un Singapore Sling, sorseggiato di pomeriggio all’ombra di Joseph Conrad e Rudyard Kipling presso il Long Bar del Raffles Hotel di Singapore, e poi a un dry martini con Hemingway, seduti al bancone dell’Harry’s New York Bar di Parigi, per concludere con un whisky liscio (non uno di più, però!) in compagnia di Dylan Thomas alla White Horse Tavern di New York City, si fa presto a superare il tasso alcolico consigliato (anche se, con questi freddi… ce la consentite un’eccezione?).

Un brindisi di Buone Feste a tutti da RaccontidiCittà!

S.S.

Neanche una strada per Saul Bellow

venerdì 9 novembre 2007

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“L’aria che veniva da tramontana era più asciutta di quella di levante. La sensibilità acuita di Herzog ne distingueva la diversità. In quelle giornate di quasi delirio e di pensieri disordinati a vastissimo raggio, correnti più profonde di sensazioni avevano acutizzato le sue percezioni, o gli avevano fatto instillare qualcosa di proprio nell’ambiente che lo circondava. Come se lo avesse dipinto con l’umidore e il colore presi dalla sua bocca, sangue, fegato, intestino, genitali. Ed era appunto con questi sentimenti commisti che aveva preso coscienza di Chicago, per più di trent’anni terreno familiare per lui. E con gli elementi della sua città, per mezzo di quella singolarissima arte dei suoi organi, creò una propria versione di Chicago. Dove i muri erti e le piastre deformate dall’impiantito dei quartieracci negri esalavano cattivi odori. Più giù, sempre a occidente, le industrie; l’indolente South Branch denso di acque di scolo e rilucente d’una crosta di melma dorata; i recinti per il bestiame da macello, deserti; i mattatoi, alti, rossi, in solitario disfacimento; e poi una monotonia lievemente ronzante di bungalow e di spennacchiati giardini pubblici; e vaste zone commerciali con grandi empori e negozi; e poi, i cimiteri… ” [tratto da Saul Bellow, Herzog, 2002, edizione speciale per la Repubblica pubblicata su licenza della Arnoldo Mondadori Editore SpA, traduzione di Letizia Ciotti Miller].

 

Nato nel 1915 a Lachine, nel Quebec, da genitori ebrei russi emigrati in Canada e trasferitisi poi a Chicago nel 1924, Saul Bellow era profondamente legato a questa metropoli americana, tanto da sceglierla come ambientazione privilegiata delle sue storie.
Chicago però non sembra ricambiare e, a due anni dalla sua scomparsa, nega qualsiasi tributo cittadino al vincitore del premio Nobel 1976 per la letteratura: né strade con il suo nome – magari nei pressi di Hyde Park, il quartiere in cui era cresciuto l’autore di The adventures of Augie March (1953) e di Herzog (1964) -, né statue, targhe o scuole.
Il motivo di tale rifiuto, stando a quanto risulta dal dibattito alimentato dal Chicago Tribune, risiede nell’accusa di razzismo rivolta a Bellow. Ma, al di là di alcuni brani incriminati, tale giudizio non potrebbe forse essere frutto di una lettura poco approfondita delle sue opere?

S.S.


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