Le (per ora) cinque tempeste di Ancona
Da sempre le tempeste fanno paura. Sconvolgono la quiete, mettendo in subbuglio apparenti stabilità. Eppure ci sono anche tempeste che salvano dal peggio o che travolgono in paradisi di piacere, rivolture che ci permettono di apprezzare la riconquistata serenità dopo che fulmini a ciel sereno o improbabili nevicate agostane l’hanno pesantemente minata. Ma, al di là dei fenomeni atmosferici, le tempeste più temibili sono quelle scatenate dai sentimenti, capaci di farci traballare come il precario tavolino di un qualsiasi Rico bar. E in ogni caso, come accade da che mondo è mondo in tutte le città di mare, le tempeste ci accompagnano per tutta la vita, se possibile anche oltre. Consapevoli di questo i nostri Autori, senza timore alcuno, sono pronti a salpare.
(Spunto, trama narrativa ed editing a cura di RaccontidiCittà)
Indice:
1. Neve d’Agosto (racconto di Luca Barbadoro)
2. Rebirth: il rompighiaccio (racconto di Agnese Zammit)
3. La danzatrice (racconto di Tricia Lioni)
4. Konstantinos (racconto di Marco Marinelli)
5. La nave fantasma (racconto di Silvia Seracini)
1. Neve d’agosto (racconto di Luca Barbadoro)
Nel tramonto di quella giornata d’inferno, la sua nave si allontanò mesta. Rivolse un’ultima volta lo sguardo in direzione della costa, ma all’insù, verso il Duomo incendiato di rosa sulla cima del Colle Guasco, per poter conservare l’illusione che lei riuscisse a vedere almeno la scia della nave che portava il suo nome via per sempre.
Ma non bisognerebbe dire mai “per sempre”, perché questi tempi sono bislacchi, e sai cosa accadde, dopo?
Era traballante. Di quelli che forse non cederanno mai, ma vatti un po’ a fidare, che inconsapevoli come tutti gli oggetti usati e usurati dall’uomo non hanno la capacità di segnalarci, posto che noi ce ne accorgessimo, il limite fisico della loro sopportabilità alle funzioni assegnategli. Era blu la formica con macchie di truciolato e pseudo-compensato che facevano capolino dove era saltato il rivestimento. In uno spazio limitato e semi circolare con il lato non tondo attaccato al muro, danzavano tazzine targate Rico e bicchieri di varie dimensioni, e non era insolito vederli scompagnati, uno alto e l’atro basso o di forme e pulizia eterogenea. Come gli avventori del Rico bar, varia umanità che non sfuggendo anch’essa all’imperativo di esser classificati tipico degli umani e di conseguenza degli anconetani, si divideva in due grandi e prevedili categorie per gli avventori di un bar: gli habitué, per scomodare un francesismo, e quelli di passaggio.
Quella mattina verso le 11:30, quando l’andirivieni delle colazioni viene monopolizzato dai clienti abituali che, fra una pasta e una bestemmia sulle loro infami paghe e faticose giornate certificate dal logorio delle tute, scemavano fra una gazzetta dello sport che si chiudeva e il vociar che sfuma, arrivò un graduato della Marina. Impeccabile nell’uniforme con i bottoni d’oro splendente, la camicia candida e il berretto già in mano dall’uscio quasi per lasciar fuori la sua ufficialità, entrò, si diresse al tavolo blu e dopo aver ascoltato il barista: “Cosa le posso servire?” l’ufficiale, riuscendo a simulare la propria irrequietezza con garbo, appoggiandosi sul mento, diede un compito di gentilezza alla propria voce: “Aspetto una ragazza”.
Arrivò dopo dieci minuti, confermando il luogo comune che le donne sono sempre in ritardo. Con un plico di fogli tenuto insieme da chissà quale ordine concettuale o di dimensione o chissà che altro, si scusò per un contrattempo motivando un tollerabile ritardo e baciò Alfredo con molto più serenità e meno disagio interiore dello stesso. Per permettere di far defluire le impressioni e interrogar un attimo l’emozione dell’averla rivista, le disse: “Ti trovo benone”, frase scontata ma funzionale a recuperare frazioni di secondo e di coscienza, “che vuoi bere?”. “Un aperitivo della casa” disse guardandolo negli occhi neri, specchio lui sperava non troppo fedele delle emozioni che lo stavano assediando. “Due aperitivi delle casa, con parecchie patatine” disse quasi urlando al barista appoggiato a leggere sul bancone del monolocale semivuoto.
Simona, psicologa della Asl, e l’ammiraglio Alfredo si rivedevano dopo dieci anni, ancora incerti sulla strada da scegliere, al bivio di chi ha un decennio di cose da dirsi o, ormai estraneo, proietta nella brevità di un aperitivo la paura del senso di estraneità maturato in quel periodo.
Simona, lasciando l’analisi e la comprensione alle doti del suo lavoro, spiazzò subito Alfredo. “Perché hai scelto il mare come fuga e non solo per lavoro?”. Quella bocca carnosa, ma mai grossolana, disegnata da un ispirato Giotto o da Raffaello l’urbinate, reincarnatosi per l’ultimo capolavoro, era andata con concretezza e memoria di ferite rimaste aperte alla causa della fine della loro storia: Alfredo dava la colpa alla sua vocazione per il mare, Simona aveva aggiunto all’epoca a questa fragile motivazione non più di poche lettere, tali da stravolgere tutto a suo favore il concetto: non paura di coniugare vita privata e scelta del mare, ma paura di amare. Ci volle – ma forse non bastò – tutta la disciplina militare per non mostrare che, a distanza di dieci anni, lei aveva ancora lo stesso potere di ferirlo.
La salsedine, gli amici Elisei e i migliaia di visi e qualche storia avuta negli anni avevano dato la falsa certezza dell’immunità dall’unico grande amore, Simona, con il siero – che va sempre maneggiato con cura – della dimenticanza, e che stavolta aveva fallito, riportando non solo la convinzione che Simona avesse ragione ma spazzando le illusorie certezze della sua scelta in marina con una sola domanda, per giunta vecchia di dieci anni, che gli fece invidiare il tavolino che, seppur malandato e traballante, non cedeva.
Mentre lei si allentava la blusa in quel giorno agostano gonfio d’umidità, Alfredo con la testa persa in rewind sugli anni precedenti fu scosso dal cercapersone: ordine perentorio di rientrare a bordo della sua nave Achille I.
Salutò Simona con un lieve bacio sulle labbra, che lei ricevette con sorpresa e distacco. Poi aggiunse ironica: “Se tra dieci anni vorrai offrirmi un altro aperitivo, sceglierò un bar con patate più croccanti”
“E chi l’ha detto che mi rifaccia vivo tanto presto!” Risero entrambi e, mentre si allontanava in un tratto di strada reso convulso dai turisti che aspettavano l’imbarco, lui eseguì con tutte le facilitazioni dei graduati il suo reimbarco senza code e con corsia preferenziale.
Ancora il porto, animato dalla sua frenesia quotidiana, non sapeva degli allarmanti contenuti dei fax della Capitaneria, che preannunciavano una gigantesca onda anomala.
La sua era una nave merci che trasportava con consueta regolarità granaglie e olio di semi dalla sponda jugoslava, greca e albanese a quella dorica. A bordo una decina di marinai di diverse etnie: del Mahgreb, tunisini, albanesi, greci, in una pluralità di idiomi e credenze religiose. Unici italiani, il nostro Alfredo e il suo vice Carlo, che mal celava la sindrome del secondo con il suo autoritarismo da quattro soldi, imposto con vessazioni su un equipaggio compatto e legato da forte spirito di squadra, che proprio nella ripulsa verso il dispotismo del vice trovava la sua piena solidarietà. Invece Alfredo era considerato, seppur comandante, punto di riferimento per umanità, collaborazione e senso pratico nella vita di bordo. Essendogli riconosciuta profonda sensibilità umana, veniva interpellato come psicologo di bordo a riempire quei vuoti di malinconia dell’equipaggio e la solitudine delle lunge e cicliche traversate in mare per tutti quei giovani, consumati dal freddo invernale e dalle arsure estive, senza ritmi certi di lavori ed approdi temporanei e mai definitivi: come coniugare la vita dell’imbarcato con una dimensione privata, la ragnatela affettiva tenuissima e evanescente consegnata a qualche penna, non sempre leggibile nel nitore dell’inchiostro, presa in qualche emporio di porti secondari.
La tavola dell’equipaggio appariva appena imbandita quando il capitano si chiuse nella saletta di comando per collegarsi alla capitaneria ed aver lumi sul codice rosso. Intanto dall’oblò vedeva un vortice di pioggia e vento tanto inaspettato che strideva con il calendario della sua scrivania, datato 12 agosto.
La voce ripetitiva e monocorde del capitano degli uffici portuali dorici rintracciata da Alfredo scandiva con lentezza ed estraneità: “Confermo l’allarme di un ciclone previsto nel porto non solo di natura violenta, ma con effetti che potrebbero esser devastanti. Invito a misure di sicurezza straordinarie nell’ancoraggio delle imbarcazioni e consiglio agli equipaggi di lasciare le navi per riparare nella sede della capitaneria che, per l’evento straordinario, metterà a disposizione gli spazi per gestire l’imminente emergenza e ospiterà tutti i turisti e quanti si trovino nell’area portuale per motivi di sicurezza”. Avrebbe voluto decine di chiarimenti ma un rumore di fax e voci di panico e clima mai vissuto da piano d’emergenza invitarono Alfredo a rinunciare alla prosecuzione della conversazione con quell’interlocutore che preannunciava una possibile tragedia con la voce neutra con cui si leggono i numeri vincenti del lotto, non enfatizzandone nessuno per imparzialità verso tutti i novanta e le loro molteplici combinazioni. Il nostro graduato cercò di far mente locale, tenendo in equilibrio l’esigenza di far presto con la capacità di non perder lucidità. Poi essendo la materia chiara, ma al contempo di difficile gestione, decise di sottoporla in riunione plenaria dell’equipaggio nel salone accanto alla stiva mercantile.
Senza giri di parole, la sua relazione partì dall’invito della Capitaneria di lasciare temporaneamente le navi per un’onda anomala attesa a breve e preannunciata da mulinelli di vento non di una potenza tale da sostanziare tale allarme: era stato lo stesso Alfredo a pensare al primo motto dei marinai sulla nave che non si abbandona mai, e Carlo partì proprio da tale assioma per erigersi come sempre a primo della classe, sconcertato che Alfredo avesse preso in considerazione l’idea del rifugio temporaneo in terraferma.
Mentre stava sottolineando ironicamente tale ipotesi come quella da scartare, per l’antica avversione di tutti alle sue parole la decisione era stata presa: si sarebbe evacuata la nave seguendo l’indicazione della Capitaneria.
Le onde nel frattempo erano diventate sempre più violente e la nave, seppur imponente, sembrava di carta in mezzo a quell’uragano mai visto ma soprattutto mai sentito per potenza e violenza da Alfredo, che ormai solcava i mari da quasi un ventennio.
Il suo atteggiamento di capitano fu esemplare nel consentire il deflusso ordinato dell’equipaggio sul mezzo anfibio che li avrebbe condotti alla sede del rifugio. Proprio nel corso di quell’operazione, in un orizzonte già indescrivibile per la tempesta, si vide una scena evocata solo per assurdo da qualche proverbio. Tra le urla ormai ordinarie, verso la fuga collettiva e scomposta dalla tempesta, un’intensa nevicata proprio sopra la nave appena abbandonata da Alfredo. Ma proprio perchè solo nei proverbi la neve d’agosto viene citata in relazione ad eventi irrealizzabili, non era neve d’agosto quella che danzava sopra la nave, bensì droga, che la violenza della tempesta aveva sprigionato rompendo la carenatura dov’era stivata, all’insaputa di tutti, eccetto ovviamente di chi l’aveva messa lì.
L’imbarazzo di Alfredo e dell’intero equipaggio fu secondo solo allo stupore con cui, inconsapevoli, erano passati nel batter d’una tempesta da naviganti a narcotrafficanti.
Mentre l’equipaggio attonito passava sotto gli ordini di Carlo, Alfredo venne tradotto a Monteacuto in elicottero. Era chiaro che, finché non si faceva luce sulla vicenda, ne rispondeva il capitano. Durante la fase di decollo, tentando ancora di capacitarsi di ciò che stava accadendo, oltre alla violenza della tempesta vista dall’alto, con tir rovesciati e banchine divelte, si accorse come l’assurdo di quel giorno potesse culminare nel suo arresto.
Appena giunto nella casa circondariale, Alfredo si imbattè nelle procedure di rito che, colpevoli o innocenti, attendono tutti: lasciare le generalità e gli effetti personali, e con essi un pò dell’identità da uomo libero, che si sgretola con una velocità inversamente proporzionale alla fondatezza dell’accusa.
Fu messo in cella con un albanese appena maggiorenne che parlava un italiano con forti echi della sua lingua madre. Molto socievole, si legò subito ad Alfredo perché, nonostante avesse saputo che era un graduato e si aspettasse un tipo austero, lo trovò alla mano. Gli insegnò come affrontare la quotidianità carceraria, evitare il nonnismo e farsi conoscenti per fumare nell’ora d’aria.
Poi arrivò la fatidica domanda: “Perché sei dentro?”.
“Sono stato accusato” rispose Alfredo “di traffico di droga perché è stata trovata nella carenatura della mia nave.”
“Che contrabbandate?”
“Boh”, rispose esausto Alfredo.
“Fico”, l’albanese già corrotto dagli intercalari dello slang giovanile nostrano “sei talmente in dentro con il narcotraffico che non chiedi più nemmeno quali sostanze trasporti”. Alfredo fece un sorriso amaro: inutile smentire il simpatico coinquilino di cella.
Ancora vittima di una visione eroica della società, seppur a ruoli invertiti fra buoni e cattivi, piuttosto comprese che dichiararsi innocente e basta sarebbe stato poco credibile – del resto lo fanno prima di tutto i colpevoli -: bisognava uscire da quell’assurda accusa con un’altra via, questo era solare, ma rimaneva buio pesto sulla via da seguire. Oppure, come in un gioco di causalità senza logica, se la tempesta aveva prodotto il suo ingiusto arresto, ci voleva un altro evento inaspettato per fargli intravede uno spiraglio di salvezza.
Era chiaro che doveva trovare il marinaio che aveva messo la droga nell’Achille I, ma come fare dal carcere, in una città ormai estranea, guardata al massimo dalla banchina nei suoi transiti al porto?
Fu chiamato con stupore al parlatorio, ignaro su chi potesse aspettarlo di là dal vetro. Suppose Carlo il suo vice, ma invece trovò Simona. Lo stupore questa volta non l’assalì con l’angoscia dell’arresto, ma con la speranza di una presenza amica nel vortice della sua bufera personale, mentre anche i giornali che arrivavano al carcere ridondavano di quella al porto.
Simona raccontò di essere la psicologa del carcere da poco, e di aver subito chiesto il colloquio, non appena saputo del suo arresto. Alfredo capì che per ottimizzare il tempo bisognava congelare emozioni e preamboli per spiegare la cruda realtà dei fatti: era arrivato all’arresto perché la sua imbarcazione trasportava chili di eroina. Ovviamente lui, oltre all’assurdità del fatto, non si capacitava di chi del suo equipaggio potesse essere emissario del traffico di droga: forse l’albanese o lo slavo, ma queste erano solo illazioni dettate da pregiudizi, visto che la rettitudine di quegli uomini era ineccepibile.
Simona, con la solita schiettezza, gli disse che la situazione non era facile e gli offrì la sua assistenza, non solo psicologica ma anche pratica. Cosa poteva fare per aiutare a discolparlo non le era ancora chiaro, ma lo avrebbe fatto fino in fondo.
Simona si congedò con un sorriso che ebbe su Alfredo un buon effetto vitaminico, poi lui raggiunse il cortile per una sigaretta prima del turno di mensa. A turno i detenuti aiutavano a preparare la sala per pranzo. Nel grande stanzone della mensa, ancora semivuoto, rubò una conversazione fondamentale per la sua udienza preliminare del giorno dopo.
Due albanesi parlottavano nella loro lingua fuori dal bagno attiguo alla mensa – Alfredo li sentiva nitidamente e li comprendeva, dato che con l’Achille I era spesso in Albania. Essi si lamentavano del maxi-sequestro di droga a causa della tempesta e fecero riferimento all’ufficiale unto che era il tramite di quei traffici. Al capitano, ora semplice recluso, caddero le forchette. Aveva capito chi era il responsabile di aver messo la droga nella sua nave: il suo vice patito e smascherato dalla brillantina, Carlo.
Alfredo riuscì ad assimilare l’esplosiva novità senza reazioni fisiche, nel silenzio che accompagnava la sua preparazione delle tavolate, solo tornato in cella non poté smettere di pensare a quanto involontariamente appreso.
Quella via oscura verso la libertà era parzialmente indicata dalla conversazione rubata agli albanesi in fila per il cesso, ora rimaneva come spenderla davanti al giudice.
Quella mattina il suo avvocato d’ufficio, sentita da Alfredo la novità, gli disse che le conversazioni udite in carcere non sono ammissibili come prova processuale, ma gli propose un’altra strategia: bisognava coinvolgere Carlo e uno degli albanesi che lo riconoscesse. Ma questo avrebbe avuto tempi lunghi. Allora, sentito il gip, gli fece capire che far luce subito sull’episodio avrebbe consentito di stroncare un traffico di droga imponente di cui era responsabile non Alfredo, ma il suo vice. Questi fu subito chiamato a testimoniare e, messo di fronte al trabocchetto che i suoi corrieri lo avevano smascherato, confessò discolpando Alfredo, che venne subito scarcerato e riabilitato comandante della sua nave.
Prima di salpare lo venne a salutare al molo Simona. La ringraziò e, sapendo di fuggire ancora una volta per non affrontare un legame che aveva agitato le sue emozioni più dell’esperienza del carcere, la baciò intensamente e se ne staccò altrettanto rapidamente, preferendo ancora, come un tempo, solcare mari piuttosto che sentimenti.
2. Rebirth: il rompighiaggio (racconto di Agnese Zammit)
Come tempesta dentro me hai soffiato, terribile amore,
le onde grigie sollevando ed i gabbiani a terra schiacciando, nella sabbia
Dietro te, tempesta, son volati, divelti rami, i passati amori
In te, mia furia, annegati altri, sbiaditi, antichi desideri
Hai ripulito, vento, chiuse stanze che la mia mente a tutti nascondeva
E l’ultima, tonante, tua onda grigia ha subissato quel che di me a me residuava
Ora cessato il vento, calma l’onda, vado tranquillo sulla liscia spiaggia e tu disegni a me una rosea alba
(Domenico Lamedica)
Per questo motivo, oltre alla promessa di conservare questa stella, minuscolo tesoro, ti chiedo un altro favore: te la senti di prenderti cura della mia nave? Di tanto in tanto, quando puoi. Basta che tu la guardi. Anche da lontano, anche da qua. Me lo prometti?
- …
- Piccola mia, non aver paura: se non te la senti, io… Che sciocco! Dimenticavo di chiederti la cosa più importante di tutte: ma tu la vedi, la mia nave?
Quel giorno era stato caotico, come sempre in quelle occasioni. Il varo di questa nuova nave era stata un’occasione di ansia, per lui, più che per tutti gli altri, era la sua prima nave e lui aveva la mente piena di domande e sensazioni: “Che cosa avrebbe riservato il futuro a quel traghetto… gli sarebbero state affidate tante vite… avrebbe saputo proteggerle?”, poi aveva vissuto un momento di gioia: “Come quando in sala parto nasce una nuova vita…”, ma subito dopo erano venuti i ripensamenti: “Quali erano stati i problemi… li avevano risolti? Si sentiva soddisfatto? Avevano lavorato bene? Il prodotto di tanti sforzi corrispondeva alle aspettative del cliente?”.
Ora che finalmente aveva raggiunto il mare, lo guardava stagliarsi nelle acque placide del porto, sullo sfondo di un tramonto infuocato che infiammava il suo giovane viso di quelle incredibili sfumature che solo Ancona gli riusciva a regalare. Il Rebirth nascondeva sotto il suo aspetto, elegante e ricercato, una forza inimmaginabile: era stata una commessa fatta alla Fincantieri di Ancona da una società finlandese, il suo destino era solcare i mari del Nord ed infliggere alle bianche lastre di ghiaccio, che li avrebbero ricoperti nel periodo invernale, profonde ferite: l’aspetto da elegante nave da crociera nascondeva il cuore forte di un rompighiaccio. Amava quella nave a cui riconosceva una ruolo fondamentale per la sua vita.
Thomas Giretti non era di Ancona, anzi, fino a due anni prima, ignorava quasi del tutto questa città: a quel tempo era ingegnere navale presso i cantieri navali di La Spezia, ed Ancona per lui era solo un nome nell’atlante italiano. Il lavoro, certo ben pagato e soprattutto legato al suo elemento preferito, il mare, gli aveva permesso di crearsi una vita soddisfacente e stabile. Sicurezze ed entusiasmi che si erano poi dissolti, travolti da improvvise onde di tempesta.
Elisa, la ragazza che amava e che, dopo anni di precariato, aveva potuto sposare, si era dimostrata poi più interessata alla propria carriera di manager: il suo trasferimento alla filiale di Milano l’aveva costretta a passare con lui solo i weekend. All’inizio poteva anche andar bene così; il suo lavoro al cantiere lo assorbiva oltre i limiti di orario, specialmente quando i tempi per le consegne dei natanti stringevano, ma lei con il passare dei mesi, sempre più impegnata dall’attività, era divenuta un’evanescente voce al telefono, una sterile fila di parole via email, qualche fuggevole ora di cronaca delle sue esperienze, fino al giorno in cui tutto era finito. Ricordava quel momento e le parole alla fine urlate al telefono, come se fossero incise con il fuoco nella sua mente: “Non riesci a liberarti per qualche giorno? Sono due mesi che non ci vediamo. Va bene… ho capito… il lavoro, ma non pensi che anch’io, tuo marito, abbia diritto ad passare po’ di tempo con te? Noi due soli insieme?”. Anche se la rabbia gli esplodeva dentro, con un grande sforzo Thomas aveva cercato di mantenere un tono calmo, di frenare le parole che gli si accavallavano nella mente, con l’unico risultato di una voce stringata che giunse a Elisa, all’altro capo della linea telefonica, come una litania piagnucolosa ed indifesa. “No, ti dico di no! Non rompere. Non ho tempo di fare da baby-sitter ad un bambino piagnucoloso; cerca di crescere: la vita non ha i ritmi e i tempi che vuoi tu. Non posso permettermi di mollare adesso, neanche per un minuto, chiaro?!” e, rivolgendosi ad una incorporea entità, “Conferma la riunione con il Brambilla alle dieci… no, aspetta… alle undici e trenta, prima ho consiglio di amministrazione, hai scritto?”. Si rese conto che lui era solo un numero telefonico scomodo e di poco conto nella sua agenda degli impegni. Lei gli aveva risposto alzando il tono della voce, quasi a trattarlo come se fosse il suo direttore e dando contemporaneamente ordini alla sua segretaria. Cercò di rimediare: “Senti, non stavo piagnucolando, sono rabbioso, cercavo solamente di rimanere calmo. È chiaro che il nostro futuro non ti interessa più, sei diventata una manager, sì, una manager stronza, e questa nuova Elisa non la conosco, non voglio conoscerla, non è il mio tipo, non la amo, questa estranea a me non interessa più, sopravviverò, o meglio finalmente sarò libero di avere una mia vita senza l’alito di un fantasma stronzo vicino!”. “Certo che non ti interessa, lo avevo capito da un pezzo, ma guarda caso neanche a me interessi più, fai quello che vuoi, lasciami in pace e scompari per sempre e… buona fortuna!”. Aveva interrotto la comunicazione lasciandolo con un unico pensiero: se l’era cercata ed ora era solo! Gli ci erano voluti diversi giorni – tempo che aveva utilizzato avviando le pratiche divorzio – per cercare di risalire la china della depressione, per ricostruire se stesso e la propria vita, ma alla fine Thomas, seguendo la tempesta che abitava il suo cuore, aveva chiesto il cambio della sede di lavoro e se, nel suo profondo, aveva sperato di trovare da parte della sua azienda una qualche difficoltà, si era invece sentito dare una entusiastica risposta positiva. “Da Ancona, visto l’aumento del numero di navi commissionate, hanno sollecitato l’arrivo di un buon ingegnere, e lei ci sembra la persona giusta, Dottor Giretti” gli aveva risposto il responsabile della produzione. Era chiaro come il sole che l’azienda aveva approfittato della sua crisi familiare per trarne un vantaggio insperato; lui in quel momento, per fuggire dal passato che l’aveva bruciato, aveva accettato. Solo dopo, a mente fredda, si era accorto di quella che poi gli era sembrata una trappola. La sua fuga dai problemi si era trasformata in un esilio: stava fuggendo da La Spezia, da Elisa, da se stesso.
Aveva provato a cercare notizie sulla sua nuova città: le informazioni la descrivevano come un posto tranquillo: “storicamente interessante, ricca di testimonianze monumentali, paesaggisticamente bella”. Ma lì la sua vita come sarebbe stata? All’arrivo Ancona gli si era presentata come un’elegante signora distesa sulle colline dominate dal porto, il cantiere aveva una dimensione media: non molti operai, molte ditte in appalto, un ambiente di lavoro quasi familiare, buoni colleghi di lavoro. I suoi colleghi di lavoro sarebbero stati la sua famiglia? Per forza, non conosceva nessuno e non aveva legami! Dopo alcuni mesi dal suo arrivo, la sua vita scorreva senza scossoni e senza particolari entusiasmi tra il cantiere, gli operai, le lamiere e la sua casa alle Grazie, dall’altro capo della città – non era stato difficile trovarla, l’affitto non era un problema: la quota la pagava il cantiere. Era un bilocale, niente di che, ma lui non aveva bisogno di molto spazio: era solo. I problemi arrivavano solo nel tempo libero, da solo si annoiava. Aveva girato per Ancona, ora ne conosceva anche gli angoli più nascosti, aveva passato ore al Museo, in Pinacoteca, al cinema, la bellissima Riviera del Conero, ma pur soddisfacendo tutte le sue curiosità spesso si sentiva ancora vuoto. Aveva scoperto che gli anconetani sono persone profondamente legate alla famiglia, oneste e lavoratrici, ma di certo anche un po’ chiuse. Si sentiva “veramente” solo. Le ferite aperte nel suo cuore dopo la separazione, le liti, gli avvocati, ancora bruciavano, l’avevano reso un po’ orso, e sapeva anche perché: aveva paura di ferirsi di nuovo. Ancora troppo spesso di notte si svegliava di soprassalto, continuando all’infinito a rivivere il naufragio del suo matrimonio. Poi con il tempo iniziò a riprendere fiato. La primavera, i profumi che riempivano l’aria, la vita tranquilla, l’aiutarono a ristabilire un po’ di pace. Il lavoro per lui si era rivelato una buona medicina.
In cantiere il caotico ammassarsi di materiali e pezzi aveva lasciato il posto in un primo momento ad una scheletrica creatura forte, possente, con l’anima di acciaio, che al tramonto veniva attraversata dai raggi potenti del sole che sembravano infonderle vita e donarle un’anima. Poi gli operai diedero a quella creatura un abito elegante, slanciato, ed un sinuoso corpo come quello di una bellissima donna a cui il mare, suo sposo avrebbe dedicato le sue impareggiabili carezze. Thomas ne era visibilmente orgoglioso. Non aveva altre donne a cui tenere. Elisa era finalmente uscita dalla sua vita, il Rebirth era il suo unico scopo.
Ad un certo punto però qualche cosa era cambiato. L’occasione era arrivata con un agitato incontro con la delegazione sindacale: si dovevano mettere a punto capitoli importanti del contratto aziendale, e lui aveva partecipato per il cantiere come responsabile di settore.
Aveva sempre tenuto le distanze dai rappresentanti sindacali, convinto che sprecavano troppe energie a combattere contro i mulini a vento. L’azienda era forte, trattava bene i propri operai e d’altra parte doveva rispettare gli impegni di produzione. Tutte quelle riunioni, quelle discussioni, erano solo perdite di tempo e rimuginamenti inutili. Quella volta però, tra i rappresentanti sindacali vi era anche Barbara.
Quella ragazza lo aveva profondamente colpito, aveva catalizzato tutta la sua attenzione. La sicurezza, la grinta, la correttezza le erano così naturali che l’aveva immediatamente invidiata e gli aveva sinceramente fatto un po’ paura: il carattere di Barbara era l’esatto contrario del suo, che invece era riservato, gentile, sicuro, ma un po’ timido. “I fondi che l’azienda ci ha fornito per l’accordo sugli incentivi, non sembrano completi, i premi di produzione vanno distribuiti equamente… non ci risulta che le commesse siano in calo, anzi ci sono ordini per almeno altre dodici navi… qui non compaiono gli incrementi… che avevamo richiesto al precedente tavolo…” Thomas non riusciva a seguire il discorso, continuava ad essere irrimediabilmente attratto dal suo viso, dal modo di parlare e di muoversi, dal rosso dei suoi capelli e da quei meravigliosi occhi verdi. Chiese a mezza voce al collega seduto vicino a lui: “Ma chi è quella?” “Ah, tu sei nuovo, non la conosci ancora. Quella è una delegata provinciale, tosta vero?” “Sì, non molla! È sempre così?” “Sempre…”.
La conclusione delle trattative aveva richiesto più incontri e lentamente lei era diventata una figura familiare, lui iniziava a capirla a comprendere il filo logico che la guidava: sarebbe piaciuto anche a lui avere la sua sicurezza, la sua voglia di vincere le battaglie, anche le più difficili, la forza di non mollare. Poi non la vide più. Quasi se ne dimenticò.
Non si sarebbe certo aspettato di rincontrarla e invece era accaduto, per caso, al supermercato, mentre cercavano entrambi di rimediare qualche cosa per cena. La riconobbe subito, accennò un timido saluto, ma Barbara lo guardò soprappensiero. Chi era? Dove aveva conosciuto quel ragazzo? Dopo qualche minuto realizzò: Ah, sì! Era al tavolo della Fincantieri… l’ingegnere… Barbara gli rinviò un saluto dubbioso: per quel giorno il lavoro era finito, ci mancava solo di dover parlare ancora di trattative. In preda al panico ed all’ansia, Thomas lottò contro la sua timidezza ed alla fine colse il momento per attaccare discorso, in fila, davanti al banco dei salumi. Molto romantico, caro il mio ingegnere, hai atteso così tanto ed ora la prima donna a cui sei interessato l’agganci davanti al banco del salumiere… sei veramente una frana! Coraggio, ormai sei cresciuto, non fare il bambino! Non ti mangerà mica… si disse tra sé. L’essere tra la gente ed in una occasione così banale, gli diedero un po’ di coraggio. Lei lo vide prendere fiato, deglutire, alzare timidamente la mano e, come se stesse scalando se stesso, lo sentì dire: “Buona sera… si ricorda di me? Sono della Fincantieri, Thomas, Thomas Giretti… ” poi gli mancò il fiato. Barbara si rese conto del suo disagio Oddio, quanto è timido!: “Buona sera, certo che mi ricordo di lei, non ha detto una parola in tutte le trattative… un caso veramente raro… da non dimenticare… Barbara Tomassetti… in una ricerca disperata di risorse per affrontare la cena!” gli rispose lei con una risata argentina che sciolse tutte le ansie ed il disagio che fino a quel momento avevano attanagliato il ragazzo. Fuori dai ruoli ufficiali, attendendo che fosse il loro turno al banco – la solita fila con gente imbranata che non decideva mai cosa comperare – si erano messi tranquillamente a chiacchierare del più e del meno. Lui aveva scoperto così di riuscire a parlare ancora con una donna, senza tenersi sulle difensive e senza paura di essere ferito; lei, evidentemente abituata a gestire problemi e persone, non si era posta alcun problema, ma quel ragazzo aveva un fascino speciale: intelligente, timido, educato, aveva un’aria terribilmente triste. Da lì iniziò una nuova amicizia, e forse qualche cosa di più. Il caso aveva deciso più volte di farli incontrare, o forse inconsciamente si erano creati nuove occasioni per vedersi, così un giorno avevano preso un aperitivo al bar, poi un altro una pizza e Thomas si era sentito rinascere: era di nuovo vivo, gli interessava qualche cosa di diverso dal suo lavoro. Si trovava ad aspettare con ansia quei momenti, sperava di vederla all’interno del cantiere, ma quando ciò avveniva lei era quasi sempre circondata da nugoli di operai accalorati in discussioni sindacali o a dare spiegazioni sui contratti. Si trovava a ripensarla continuamente, rivedeva la sua figura così diversa da quella di Elisa: snella, minuta, scattante e con la testa sempre da qualche altra parte. Barbara, infatti, era alta, rossa con un sorriso spontaneo, a cui si accompagnavano quei vivaci occhi verdi che riuscivano a leggere oltre le parole. Ne era ormai sicuro, lei riusciva a cogliere anche i pensieri, le gioie ed i turbamenti, comunicava in modo diretto e spontaneo, sempre pronta ad infiammarsi per quello in cui credeva, ad arrabbiarsi se trovava ostacoli, ma comunque sempre indaffarata a trovare soluzioni: se aveva dubbi di certo li risolveva ed andava avanti. Dopo tempi che gli sembravano biblici, ora ne era più che certo: Barbara era la donna della sua vita! Ma lei che cosa pensava di lui? Veramente… quando si trovavano sembrava contenta, chissà… Lui aveva sentito lentamente sciogliersi il gelo che lo serrava, come se l’estate marchigiana che creava paesaggi di sogno profumati di ginestre e pitosfori fosse riuscita ad insinuarsi ed esplodere anche nel suo cuore. Era nato qualche cosa di più di un’amicizia: ormai nelle frequenti occasioni, da parte sua avidamente cercate, tra loro parlavano di tutto, ma Thomas non si sentiva ancora libero, una fastidiosa punta di paura di sbagliare rimaneva in agguato, pronta a colpire ancora.
Anche ora guardando il tramonto limpido, vedeva la figura di Barbara stagliarsi tra i colori forti del sole e quelli sfumati dell’orizzonte tra cielo e mare, come se la natura stessa condividesse con lei i colori, i pensieri, e le donasse quella sua forza capace di superare tutte le tempeste e riportare la serenità. Così stava pensando, godendosi il panorama, quando lo squillo del cellulare improvvisamente lo riportò alla realtà. Di malavoglia prese il telefonino sulla scrivania, uno sguardo al numero e il suo nuovo mondo fatato crollò. Era Elisa. Non rispose. Iniziò a sudare freddo, si sentì schiacciare da un peso che sembrava insopportabile, la testa in subbuglio con pensieri assurdi ed accavallati che si assiepavano tutti assieme, togliendogli ogni lucidità. Cosa voleva ora quell’arpia? Che doveva fare? Che cosa poteva dirle? Doveva restare calmo o mandarla a quel paese? Il cellulare squillò ancora per lunghi interminabili minuti, la sua serenità trapassata e distrutta da una incessante sirena di pericolo. Nonostante l’angoscia alla fine rispose: non gli piaceva lasciare le cose in sospeso e se fosse stato qualche cosa d’importante? “Pronto…” Un click e sentì la voce lontana e accusatoria della sua ex: “Ma dove eri? Perché non rispondevi? Come al solito non volevi rispondere…”. In quel preciso momento la sua sicurezza, la sua serenità evaporarono del tutto, la coscienza fu annientata dal buio, un vuoto infinito calò come una maligna cappa di nebbia, soffocando e nascondendo tutto il suo essere: la mente e la logica erano ormai fuori gioco. Riuscì solo a pensare: Merda! “No, no, sono al lavoro ed ero fuori stanza” mentì. Ecco, come sempre con Elisa si sentiva su un piano inferiore: lui era quello che si doveva sempre difendere. Era proprio questa sensazione che aveva finito di distruggere il loro matrimonio. Lei, sicura, incalzò ancora: “Ti sei dato alla fuga eh? Come ti trovi in quella cittadina di merda…” e via a snocciolare tutti i pregi della grande Milano, vantandosi di tutte le conquiste di carriera che aveva fatto senza di lui. Parlò praticamente da sola per dieci minuti, fino a che lui riuscì a riprendere il suo turno. Nel frattempo la rabbia lo aveva reso più audace e si trovò ad urlare: “Ma che cavolo ne sai tu? Che te ne frega! Lasciami in pace, con te ringraziando il cielo ho chiuso, chiuso capito? Non mi importa un fico secco di quello che fai o sei diventata o di Milano, non ti permetterò di ridiventare il mio incubo. Taci e lasciami in pace. Con te non ho più nulla da dividere, ti ho dimenticato, vedi di non rompere…”
Spense il telefono agitato, scombussolato, arrabbiato e ansante, tornò alla finestra con la voglia di rivivere quella serenità che si stava godendo solo pochi istanti prima, ma quello che vide non era più ciò che sperava: il panorama placido e sereno di prima, ora era diventato tutta un’altra cosa. Un boato e il cielo si era fatto scuro mentre folate di vento, con una forza incredibile, spazzavano il cantiere, le gru ruotavano quasi impazzite nel tentativo di assecondare gli schiaffi dell’incorporeo gigante, anche gli operai correvano come formiche a riparare mezzi ed attrezzature, a metterle in sicurezza. A bocca aperta, rimase pietrificato e incollato alla finestra da uno spettacolo da film dell’orrore. Annunciata da un vento fortissimo, infatti, un’immensa nube nera avanzava dall’orizzonte. Anche l’acqua era oscurità, il porto si era trasformato in un antro plumbeo che rifletteva l’ardesia del cielo, il mare infuriato generava onde maligne che facevano gemere il cordame, infrangendosi contro i moli e gli scafi delle navi ormeggiate. Poi dall’orizzonte si materializzò dal mare, come disegnata da un pittore impazzito, una linea chiara, una lunga ferita che avanzava a velocità costante, un grosso ariete come a sfondare porte antiche, medioevali. La vide avvicinarsi e crescere, vivere di vita propria; un’onda enorme, crestata di spuma, percorreva verticalmente l’entrata del porto travolgendo tutto ciò che incontrava ed alla fine, con una potenza fuori del comune si abbatteva e si spezzava su tutte le navi e le barche alla fonda; spazzava i piazzali, i moli e… si abbatteva ferocemente sulla sua creatura, il Rebirth, facendolo inclinare ora su un lato ora sull’altro. Il rompighiaccio, prigioniero delle gomene che lo legavano alle bitte, fu sbattuto più volte sul molo, i sostegni delle scialuppe si ruppero come se fossero fuscelli, mollando in parte le fragili barche di salvataggio, che ora pendevano di sbieco come grossi pesci appesi ad un unico amo, la carena potente sopportò l’impatto ma si piegò, mostrando sulle lamiere piegate grandi ammaccature; in un attimo il traghetto era invecchiato di millenni, la sua creatura era stata colpita, ferita: sopravvissuta sì, ma piuttosto malconcia. Thomas sentì le lacrime scorrergli sul viso attonito. Appena ne ebbe la forza, si precipitò di sotto nel piazzale, il cuore che scoppiava di rabbia, di delusione, di incredulità, di orrore. Si sentì un codardo, chiuso in ufficio mentre tutti gli altri, incuranti del pericolo, cercavano di fare qualche cosa. In preda all’angoscia, scese gli scalini due a due: doveva andare! Appena varcò la soglia, che si affacciava sul piazzale principale del cantiere, si fermò trafitto da un pensiero: Quanto tempo era passato? Era fuori, l’aria era tiepida e del vento feroce di poco prima non rimaneva neanche l’ombra. Si trovò a guardare il cielo sereno e il sole che tramontava placidamente all’orizzonte tra i colori accesi della sera; gli operai, spinti dal suono della sirena di fine turno, chiacchierando allegramente si stavano avviando verso i cancelli per godersi il meritato riposo e in entrata stava giungendo un altro folto numero di tute blu a dar loro il cambio per il turno di notte. Tutti, vedendolo nel piazzale, lo guardavano, in modo strano, con curiosità. Non l’avevano mai visto così, con l’aria stravolta, gli occhi dilatati dalla paura, la cravatta sgualcita come se gli fosse corso dietro un plotone di fantasmi. Alcuni operai passandogli accanto gli chiesero: “Dottor Giretti, si sente bene?” ma lui non li udì. Fino a quando uno di loro non gli si fermò accanto: “Dottore, vada a casa, il lavoro ormai è terminato. Dia retta, ha bisogno di una pausa” “Sì, penso di sì” rispose in Thomas. Poi udì la sua voce arrochita chiedere: “Ma che cosa era? Ha visto? Che tragedia, il mio povero traghetto! Ora toccherà lavorare mesi per rimetterlo in sesto!” “No, mi creda era solo un po’ di rivoltura: in Ancona ogni tanto capita. Certo, il vento era forte, ma non è successo nulla, stia tranquillo, abbiamo controllato tutto. Vada a casa, è meglio dormirci su” “Sì, ha ragione, ora vado” Ma Thomas, seguendo la volontà indipendente delle sue gambe, sotto lo sguardo stupito degli operai, si avviò lentamente al molo. Doveva vedere da vicino i danni del Rebirth. Risentiva lo squillo del cellulare, la voce di Elisa, il passato che lo travolgeva e la scena apocalittica a cui aveva assistito, le sensazioni di impotenza, di paura e di rabbia. Iniziò a correre: Doveva vedere… Per arrivare al molo dove era attraccato il rompighiaccio, bisognava uscire dagli enormi cancelli che delimitavano il perimetro del cantiere. Iniziò ad accelerare fino a trovarsi a correre a perdifiato.
Accecato dalle proprie emozioni, dai raggi potenti del tramonto, non si accorse della donna che lo attendeva, né sentì la sua voce chiamarlo. A Barbara, che gli operai conoscevano bene, era stato riferito da un gruppo di loro che il Dottor Giretti sembrava un po’ strano. “Forse lo stress…” le dissero. Barbara lo vide correre verso il molo, come se tutto il cantiere stesse per crollargli addosso, e fermarsi di fianco al Rebirth, immobile come una statua di sale. Gli si avvicinò lentamente, gli mise una mano sulla spalla e sottovoce lo chiamò: “Thomas, ehi! Che succede? Hai la faccia di uno che ha appena visto un fantasma! Anzi molti fantasmi, sei impresentabile!”. Non sapendo come avrebbe reagito, Barbara aveva cercato di calibrare il tono della sua voce tra il deciso, lo scherzoso ed il rimprovero. Lui la guardò con occhi vuoti, sembrava non vederla, ma rincorrere una visione lontana. In effetti ora non vedeva più l’onda, il vento o il disastro, ma la figura di Elisa che rideva maligna e gli gridava con la voce sibilante ed impetuosa del vento: “Codardo! La tua famosa tranquillità è solo paura, paura di te stesso, di dover prendere decisioni? Sei fuggito, come sempre, ma posso distruggerti quando voglio, tu non mi puoi toccare, il mio mondo è reale, i tuoi sono invece solo stupidi sogni! Nella vita non importa chi devi ferire o distruggere, bisogna salvarsi…” “Il mio traghetto, la mia vita, la tua vita, la nostra vita… Elisa mi vuole, ci vuole, distruggere…” disse con un filo di voce. Barbara capì al volo che la battaglia era dentro di lui, e con una sicurezza che forse neanche lei in quel momento sentiva, ma senza dubbio alimentata dalla rabbia che anche lei stava vivendo, prese una decisione e disse: “Thomas, stammi a sentire! Che caspita stai dicendo… il tuo traghetto è qui sano e salvo, quante storie per un po’ di vento! La tua vita è quella che decidi tu di fare, Elisa è una storia passata e poi sai quanto gliene importa ormai di te? La mia vita è mia, né tua né di Elisa, dipende solo da me quale strada voglio percorrere… e tu non sei solo… se lo vuoi…” Lui finalmente la guardò e nei suoi occhi verdi lesse preoccupazione, ansia, ma anche un messaggio che neppure Elisa, nei periodi migliori, gli aveva saputo comunicare: la serenità, la tranquillità, la sicurezza, la volontà di non lasciarlo più. L’abbracciò e rivide e risentì il profumo del mare, il calore dell’estate, il vento fresco del tramonto… si voltò verso il traghetto e lo rivide come era: sano e salvo, con solo qualche ammaccatura dove lo scafo aveva cozzato contro il molo, ma niente di catastrofico. “Il Rebirth ha superato la sua prima tempesta”, disse riprendendo fiato “ed io la seconda!”. Poi guardando Barbara capì che non poteva stare senza di lei: “Non mi lasciare, non mi lasciare più da solo”.
3. La danzatrice (racconto di Tricia Lioni)
… i suoi fianchi, quella singolare costruzione sorretta da impalcature di osso ad angolo acuto la cui rassicurante morbidezza esplodeva tranquilla sotto la vita assottigliata da stracci vezzosamente stretti, fianchi dove si poteva trovare riparo e protezione, suggere succulento nutrimento, crescere, e poi nascere, distaccandosene con una nostalgia tanto forte da desiderare di tornare presto a toccarli con mani lisce di uomo mancato, dopo averli riconosciuti con occhi limpidi e acuti, pronti a riempirsi di lacrime di rabbia il cui sapore dolce, infantile, risuonava però di sentori nuovi, fin troppo salmastri.
“Salam…” dice Fadel sollevando gli occhi dalla cassetta ricolma di pesce accatastata al bordo di quella vecchia imbarcazione.
Un motopeschereccio come tanti, assiepato fianco a fianco ad altri, tutti allineati in un rispettoso incontro con il molo di questo porto che ogni giorno li saluta vedendoli partire e li accoglie al loro ritorno con il pescoso carico.
Come una enorme favolistica balena da ciascuno fuoriesce un colorato gruppo di uomini, dai visi segnati dal mare e dal vento, così diversi ma così uguali. Ciascuno con una sua storia, un passato ed un comune presente: essere lì affaccendati a smistare i doni di quel mare dal quale attingono vita e che dà loro vita.
Fadel saluta i suoi compagni calandosi il cappello azzurro fino a coprire le folte sopracciglia corvine, facendo appena trapelare un ammiccante sorriso, e si incammina lasciandosi alle spalle la vastità del mare. Ogni giorno lo stesso rituale, spalle a quella distesa d’acqua che lo separa dalla natìa Tunisia e volto alla vita quotidiana, in un mondo di duro lavoro in cui riecheggiano le voci dei bambini. A casa. Ad attenderlo. Ancora una volta, oggi come ieri. Ieri come ieri l’altro.
Ma oggi è una strana giornata. La giornata dopo la tempesta, come tutti la chiamano, ormai. I suoi occhi avevano visto tanto, troppo… ma mai una cosa simile.
Di tanto in tanto si volta a lanciare lunghi sguardi attenti a quella superficie azzurra che come un tentacolare animale si svincola dalla stretta della banchina librandosi verso lo spazio aperto del mare. Eppure tutto sembra misteriosamente tornato alla normalità . D’altronde lo era sempre stato, se non per un attimo.
Solo un attimo era stato sufficiente per vestire il porto con un abito di festa.
Una strana festa, sopraggiunta senza preavviso come una giovane danzatrice del ventre che fa ingresso nella sala in punta di piedi, scalza, ma irrompendo violentemente tra gli astanti.
Fadel ricorda quelle morbide rotondità avvolte di veli colorati muoversi soavemente ma nel contempo vibrare nervosamente. Un corpo soffice che si scuote nell’aria lasciando il rumore delle sue vesti ornate di metallo. Un rumore che è una musica, che accende gli animi e li riempie di desiderio. Una donna che danza e che come un virgulto si piega senza spezzarsi, incessantemente e sempre più violentemente.
Quando la danzatrice appare sembra un’immagine di sogno. Profumata e lieve si muove delicatamente sui tappeti, ma poi d’un tratto si scrolla di dosso il primo velo. Lo getta via e liberandosene lascia emergere tutta le forza della sensualità che scoppia dentro quel corpo, lacerando l’immagine della donna e mostrando le facce del desiderio che quella carne racchiude.
Così aveva fatto quell’onda oggi. Aveva danzato per loro. Aveva scagliato nell’aria con tutta la sua forza un’enorme massa d’acqua. Aveva d’un tratto ricoperto tutto, anche la sua barca. Mentre molti suoi compagni, presi dal panico, avevano cercato riparo, Fadel si era lasciato travolgere, trascinato da una voluttuosa voglia di essere trasportato chissà dove.
Ancora tutti ne parlano. Si raccontano di come si erano per così dire salvati, di dove si erano aggrappati.
“Era altissima…” ricorda quel giovane senegalese arrivato da pochi giorni “… molto grande”. Sapeva ancora poche parole, ma i suoi occhi profondi esprimevano più di un lungo discorso le sensazioni che aveva provato.
“Pensavo a ‘na bomba…” qualcuno dice guardando con diffidenza quella comunità multicolore. I ragazzi che avevano ripescato Fadel dalle acque dicevano che misteriosamente ne era emerso quasi asciutto e, soprattutto, felice.
Li sente raccontarsi pieni di curiosità quello strano avvenimento mentre incede spalle alla banchina verso casa. Per lui il mare aveva danzato, semplicemente danzato, anzi, pensava che il mare avesse danzato proprio per lui, trascinandolo con sé nell’infinito delle sue profondità.
Di quel bagno forzato ricorda solo la forza con cui era stato scaraventato fuori dal motopeschereccio. Tutto il resto era stato solo piacere. Un immenso piacere.
La violenza di quella grande onda lo aveva incantato, trascinandolo con sé.
Vedeva ancora il suo corpo, vestito di poche cose, fino a qualche attimo prima operosamente attento alle usuali occupazioni. Si vedeva intento in meccaniche operazioni ormai da tempo abbinate al pane quotidiano, improvvisamente rapito e condotto tra i flutti di uno specchio di mare normalmente calmo divenuto d’incanto turbolento e scuro.
Nel suo cammino verso casa, i suoi pensieri ancora fissi là. Fermi a quegli istanti in cui i suoi sogni di uomo si erano fusi a quelli del mare.
La danzatrice lo aveva portato tra le sue vesti fatte di un azzurro volteggiare di onde a ricordargli la sua terra e la sua natura.
Per Fadel erano stati momenti lunghi una vita, sogni fatti realtà, ed aveva danzato fino allo stremo, ebbro di quella carne voluttuosa che lo stringeva a sé e lo allontanava scrollandolo di dosso in un ballo dei sensi.
“È stato sotto un bel po’… ” sono le parole degli uomini dal viso rugoso segnato dal vento e la fronte ancora imperlata di sudore, riferendosi a lui, sì, proprio a lui, ma quel tempo che per loro significa minuti era per lui la sua vita, tutta, che aveva rivista scorrergli davanti mentre danzava follemente tra quelle carni morbide.
A quanto fosse stata dura ma intensa, la sua vita, pensava quel corpo vestito di poche cose, allontanandosi, spalle al porto.
4. Konstantinos (racconto di Marco Marinelli)
Da quel momento ad Ancona, per riferirsi a quello stranissimo evento, parlarono della “grande tempesta”. Anche se di una vera e propria tempesta, certo non poteva essersi trattato. Una tempesta dentro al porto, dove mai si è sentito?
Eppure quel boato improvviso, e poi quella scossa che aveva fatto vibrare a lungo le banchine, e poi quell’onda alta a coprire quel poco che rimaneva sotto il cielo improvvisamente naufragato in un’oscurità da interruttore spento per errore – o magari per uno scherzo? -, e poi tutti quegli spruzzi d’acqua, come se una nave fantasma avesse calcolato male le distanze – o i tempi, che poi è lo stesso – durante le manovre per l’approdo. Una nave fantasma, di sicuro, perché una volta calmatesi le acque – è proprio il caso di dirlo –, di navi maldestramente ormeggiate nessuno aveva visto neanche l’ombra.
“Sì, è vero tenente, questa notte un’onda anomala ha creato molti problemi… ” il giovane finanziere si stava allontanando al fianco di un ufficiale con il cappello d’ordinanza in testa e la divisa impeccabile nonostante il sole picchiasse forte su tutta la banchina del porto.
Una coppia di turisti tedeschi sorseggiava in solitaria una bevanda sotto il cono d’ombra di una pensilina dall’altro lato della strada, il resto della colonna si cucinava in attesa del via libera.
“Maresciallo, mi spieghi cosa è successo” chiese il tenente serio.
“Tenente, qua nessuno se lo spiega. Questa notte all’improvviso un’onda anomala si è abbattuta dentro il porto con una violenza inaudita. Molte navi hanno subito danni, alcuni container, fortunatamente vuoti, sono finiti in mare, uno addirittura è arrivato su binari della stazione marittima… Vede, anche il nostro check-point all’entrata del porto ha subito danni…”
“Davvero? Perché non me lo ha detto subito, maresciallo?”
“A causa di questa onda anomala si è bloccata tutta la dogana, ero convinto che fosse più importante far uscire la gente dal porto” replicò il giovane maresciallo affranto, poi guardò il cielo imprecando alla sfortuna capitatagli nel suo primo turno di guardia.
“I danni vanno sempre valutati, caro maresciallo” disse il tenente.
Il porto di Ancona viveva di superstizioni e leggende: qui trovavano vita dalla fantasia di marinai e viaggiatori storie di fantasmi, navi affondate e altre credenze popolari.
Erano storie che facevano parte del porto come la puzza di pesce marcio, come le macchie d’olio sulle banchine dei moli, come le sfumature dell’acqua tinta dalla nafta, come Konstantinos, che contrabbandava sigarette, e come tutti quei signori, più o meno loschi, che come barche all’ancora in attesa di qualcosa commentavano questa zona neutra. Non era ancora trascorso un giorno e già si sussurrava della grande tempesta nel porto di Ancona, della darsena dei cantieri allagata, della lanterna rossa del molo danneggiata.
Konstantinos era sceso sulla banchina con il suo camion quella mattina. Le voci della notte agitata di cui lui ricordava confusamente il trambusto erano state subito confermate.
Konstantinos lo aveva sentito dire prima da un suo collega ad un altro appena sbarcati, e ora dai finanzieri, ma a queste storie di solito non voleva credere. Lui era un camionista: non credere ai fatti legati alle leggende e alle dicerie era una scelta, un dogma che si era imposto riguardo a quasi tutto quello che non conoscesse direttamente; i suoi avi erano greci per questo credeva solo alla mitologia legata agli Dei greci, anzi solo a quelli legati al mare, quando ci si trovava.
Quando dormiva aveva il sonno profondo, per questo non si era accorto di niente, quindi il pensiero andò subito al concreto e al pratico ovvero alle “bionde” nel doppio fondo: le aveva sistemate bene e si rasserenò pensando che non ci sarebbero stati problemi. Le leggende pensò che servivano per riconciliarsi con il passato, giocavano con la paura della gente, ne sfioravano l’anima per far assaporare dei brividi preconfezionati. Per lui erano solo dicerie.
Konstantinos era grasso, brutto e sempre sporco, la sua vita era concentrata nell’abitacolo del suo mezzo. Il suo lavoro era passare le dogane dei porti di mezzo mondo, trasportare merci, muoverle da un paese all’altro. La dogana era un’autorità che non voleva riconoscere la sua etica di anarchico e uomo al limite; aveva sempre rappresentato un’interruzione forzata al viaggio a cui era costretto, contro la sua volontà. L’ALT verniciato per terra e quella barra di metallo con le righe bianche e rosse erano una costrizione, una violenza contro la sua assoluta volontà di non uniformarsi ai rigidi canoni di una società civile. Quegli uomini in uniforme grigia erano l’unica barriera imposta a cui non rispondesse con l’esuberanza e la prepotenza, ma a cui al contrario, doveva fare sempre buon viso a cattivo gioco.
Pensava a queste cose, quando un refolo di vento entrò dal finestrino portando un po’ di sollievo, staccò la schiena dal sedile per cercare refrigerio e restò in ascolto.
Erano passate ormai quattro ore da quando era in coda alla dogana, il fumo della sigaretta regolava la sua respirazione, il caldo stagnante ovattava di silenzio tutta l’area, solo il suono di una radio scivolava fuori da un finestrino abbassato di un’auto in coda.
All’improvviso si ridestò. Se li vide di fianco allo sportello confabulare tra loro, uno passò all’altro una cartellina rossa, poi se ne andò.
“È tutto sulla bolla, sono water di porcellana” disse Konstantinos con un sorriso falso mentre si toccava la pancia. Il sudore gli colava sulla fronte, poi restò in silenzio.
“Non ha nient’altro da dichiarare?” Il giovane finanziere si toccò il colletto della divisa troppo stretto per quel caldo. Prese i documenti che gli passò Konstantinos: erano appiccicosi, una macchia si evidenziò in controluce quando cercò di leggerli. Lo aveva visto dalla faccia che si stavano antipatici a vicenda, una questione di pelle.
Il giovane gendarme non sapeva del doppio fondo dove erano stipati cinque scatoloni di “bionde”, e la solerzia di un giovane finanziere era l’unica cosa che quel giorno Konstantinos avrebbe voluto evitare.
Quando il finanziere se ne andò con i suoi documenti, cominciò a guardarsi intorno sperando in un’attesa breve, un disbrigo di formalità che lo avrebbe poi fatto filare via in tutta leggerezza e tranquillità da quel catrame rovente. Non appena lo vide ritornare attraversando il piazzale di corsa con un sorriso bloccato, Konstantinos capì che avrebbe avuto problemi.
“Signor Konstantinos Papadolo, mi può aprire il rimorchio, per cortesia?” gli intimò il giovane finanziere con il migliore sguardo professionale che potesse fare in quella circostanza e a quell’ora.
“Certamente” rispose Konstantinos, strozzando la voce.
In quel preciso momento, pensò che demoni e maledizioni si fossero accaniti contro di lui, e che quel viaggio non era nato sotto i migliori auspici.
Il doppio fondo era coperto da scatoloni leggeri che spostandosi non avrebbero dato nell’occhio, un meccanismo a scatto quasi invisibile al lato azionava l’apertura dove erano nascoste le sigarette di contrabbando.
Quando si incrociarono gli sguardi, il giovane finanziere capì subito che avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo. Un innato senso a capire al volo le persone sopperiva alla sua scarsa esperienza con quel mestiere. Una specie di premonizione lo aveva sempre aiutato nella vita a distinguere il bene dal male, le persone buone da quelle cattive e le situazioni dove c’erano i guai da quelle che non ne avevano.
Il servilismo di Konstantinos in quell’occasione fu totale: assecondare un tutore della legge mentre svolge il suo lavoro era la cosa migliore da fare, anche se gli costava molta fatica.
“Ah… qua abbiamo un doppio fondo!” esclamò soddisfatto il giovane finanziere “Venga qua e apra immediatamente, lei verrà denunciato per merce di contrabbando se troviamo qualcosa di non dichiarato sui documenti di trasporto, lo sa vero?”. La soddisfazione gli si stampò in volto.
“Io ho tutto in regola!” disse Konstantinos, con un’espressione fra lo stupore e la rabbia.
Quando il finanziere lo invitò a salire dentro il rimorchio, la zaffata di aria calda gli tolse il fiato. I teloni arroventati avevano trasformato il mezzo in un forno ambulante.
Nel preciso momento in cui fu costretto ad azionare il meccanismo di apertura, la sua mente lo portò già a quello che sarebbe accaduto e a tutti i guai che avrebbe passato, alla sorte, a sua madre in Grecia che avrebbe sofferto, al lavoro che avrebbe perso, ai suoi mea culpa che si stavano già allineando uno ad uno. Non aveva santi a cui rivolgersi, pensò ai suoi avi, al mare, alle tempeste, e a tutti quelli che usavano il mare nella loro vita.
Furono pensieri veloci che durarono solo un attimo.
“Può andare, Signor Papadolo” il giovane finanziere richiuse quasi stizzito.
Il tutto si era esaurito in quei pochi attimi durante i quali la sua mente aveva viaggiato così velocemente. Non pensò a niente e non disse niente, richiuse e se ne andò.
Quando si fermò fuori dal porto, Konstantinos si chiese che fine avessero fatto le sigarette e come il finanziere avesse fatto a non vederle. Quando sollevò il doppio fondo, capì: si erano spostate, uscendo dalla visuale e andandosi ad incastrare in un angolo. Il giovane finanziere non era stato poi tanto solerte come aveva temuto. Allora ringraziò l’onda anomala nel porto di Ancona che lo aveva aiutato indirettamente e le leggende che sono legate al mare.
5. La nave fantasma (racconto di Silvia Seracini)
Sbucò da un punto imprecisato della banchina, resa lucida dall’acqua di quella strana onda, goffa e pigra, che si era alzata oltre gli argini di sicurezza, provocando un fuggifuggi fra quei pochi che, tardivi, solcavano gli scali in quell’imbrunire d’inverno. Fra questi, una bambina, a caccia di stelle marine impigliate nelle reti dei pescatori. L’onda l’aveva scaraventata a terra, inzuppandola da capo a piedi. Si era rialzata, impaurita, e aveva cercato rifugio dietro a un mucchio di nasse accatastate. Poi però, una volta calmatesi le acque, era saltata fuori dal suo riparo, intenzionata a proseguire la sua ricerca, fino a quando, con la coda dell’occhio, non lo aveva visto apparire alle sue spalle.
Era un vecchietto rinsecchito, rivestito di abiti eleganti ma abbondanti di almeno due misure. Ai suoi piedi, un singolare paio di scarpine a punta – queste, invece, a giudicare dal suo modo di camminare, gli stavano strette – dalle fibbie non perfettamente lucidate, anche se si intuiva che un tentativo c’era stato.
Nel vedere la piccola, gli si erano riempiti gli occhi di lacrime e, per quello che potevano permettergli quei suoi scarpini, era corso verso di lei, abbracciandola alle spalle con tutta l’energia che gli consentiva la sua età avanzata. La bambina era scoppiata a piangere impaurita, tentando di liberarsi dalla sua presa, ma non c’era riuscita: più che in un abbraccio, le flaccide braccia di quel vecchio sembravano imprigionarla in una morsa.
“Finalmente ti ho trovata! Eccoti qua! Ti ricordi di me? O meglio, tu non puoi ricordarti di me, ma forse ti ricordi di un bambino dalle sontuose vesti, che certo non poteva essere il figlio di un pescatore. Te lo ricordi?”
La bambina continuava a frignare, ergendosi sulle punte delle sue scarpe, piene d’acqua.
“Sapessi che paura! Temevo che non ti avrei più incontrato, in questa mia vita, invece eccoti. Ma lasciati abbracciare! Come sei piccola! E sei fradicia! E colpa mia, povera stella… è sempre stata colpa mia. Lasciati riscaldare dal mio abbraccio, e dimmi: se non ti ricordi di quel bambino, ti ricorderai magari della scia d’acqua della nave che lo portò via, lontano. Vero?”
La bambina non sembrava avere la minima intenzione di rispondergli, presa com’era dallo sforzo di divincolarsi.
“E di un grido che lacerò l’aria?”
La bambina aveva cominciato a scalciare.
“E di una passionale pescivendola rimasta vedova in giovane età?”
La bambina riuscì a mordergli una mano.
“E di una vecchia cieca, che riparava le reti ascoltando il profumo dell’acqua di mare? Ahi!”
Il dolore costrinse il vecchietto a staccare la mano moccigata dal corpo sussultante della bambina, ma continuò a tenerla ben stretta con l’altro braccio.
La bambina non la smetteva di piangere, allora il vecchio, con la mano libera, tirò fuori da una delle sue tasche di velluto un’incredibile stella di mare. La piccola si calmò. Tirò su con il naso e si prese il suo tesoro, mentre il vecchio, continuando a stringerla, cominciava a raccontare…
Da quel momento ad Ancona, per riferirsi a quello stranissimo evento, parlarono della “grande tempesta”. Anche se di una vera e propria tempesta, certo non poteva essersi trattato. Una tempesta dentro al porto, dove mai si è sentito?
Eppure quel boato improvviso, e poi quella scossa che aveva fatto vibrare a lungo le banchine, e poi quell’onda alta a coprire quel poco che rimaneva sotto il cielo improvvisamente naufragato in un’oscurità da interruttore spento per errore – o magari per uno scherzo? –, e poi tutti quegli spruzzi d’acqua, come se una nave fantasma avesse calcolato male le distanze – o i tempi, che poi è lo stesso – durante le manovre per l’approdo. Una nave fantasma, di sicuro, perché una volta calmatesi le acque – è proprio il caso di dirlo –, di navi maldestramente ormeggiate nessuno aveva visto neanche l’ombra.
Ce ne era stata un’altra, anni prima, e un’altra ancora ne sarebbe venuta, però mai nessuna sarebbe stata paragonabile, per intensità e durata, a quella. Alla “grande tempesta”.
Ma, come tutte le storie che si rispettano – la realtà, piccola mia, non sempre segue queste regole –, cominciamo dal principio.
La prima volta, arrivai qui agli albori della primavera. Di mattina, né presto né tardi. Fra le banchine del porto c’era gran movimento, e rumore: confabulare di facchini, chiacchiere di marinai, vociare di pescivendoli la cui mercanzia rifletteva argentea l’azzurro acerbo di un sole che sembrava aver appena stirato oziosamente i suoi raggi da sotto una coltre di nuvole leggere.
Era l’ora in cui pescherecci facevano ritorno, mordendo coi loro musi rognosi le banchine altrettanto scrostate, per poi accucciarsi quieti dopo tutta una notte passata a fiutare pesci comete sotto un mare profondo di stelle boccheggianti. Arrivavano uno dopo l’altro, ansimando stanchi, e si addormentavano all’eco dell’ultimo dondolio dei loro gusci inerti, svuotati di uomini pescatori e di pesci già cominciati a svuotare delle loro interiora.
Arrivavano piano, in processione pigra, eppure quando l’onda si alzò, cristallina e inattesa, spruzzando con irriverenza le cartaglie dei facchini e i capelli inariditi delle pescivendole, tutti si voltarono a cercare con gli occhi quella barcaccia maleducata – o il suo inesperto timoniere, che poi è lo stesso –, che doveva avere una gran fretta di toccare terra per aver provocato quella specie di terremoto.
Terremoto. Lo pensarono un po’ tutti, in questa città avvezza agli abbracci focosi di terra e acqua, agli svenevoli cedimenti franosi di colline dal cuore argilloso, dritte fino al mare.
Non devi aver paura, mio innocente tesoro: la scossa fu molto più forte rispetto alla mareggiata di stasera – anche se molto meno intensa di quella che accompagnò la “grande tempesta”, come ti racconterò –, eppure, dopo un primo sussulto – ma poteva essere stato benissimo il trambusto provocato da quell’onda dispettosa –, la terra non aveva affatto l’aria di tremare. Né barche strafottenti digrignavano il loro sorriso arrogante, dopo averlo fragorosamente infranto sulla banchina.
Ma allora?
Una tempesta in arrivo? Il sole – bello che svegliato anche lui, forse proprio da quel gran fracasso – filava ormai deciso sulla rotta di una bella giornata di Marzo.
Ma allora?
Tutti, anche se cercavano di non darlo a vedere, cominciarono comunque a preoccuparsi dei pescherecci non ancora rientrati. Soprattutto una persona sembrava non darsi pace, continuando a percorrere avanti e indietro, senza posa, la banchina, con lo sguardo teso come un elastico che dai suoi occhi chiari – proprio come i tuoi, piccola mia – cercava disperatamente appiglio in quella imprendibile linea sottile in bilico sulla quale cielo e mare patteggiano da una vita i loro domini.
Occhi chiari e guizzanti come i pesci nella sua cesta – anche a quella si aggrappava, le mani giovani ma rovinate da frammenti di guanti di strati e strati di squame iridescenti. Nel suo cuore in gola, una spina: la mano bruciata dal sole di qualcuno che aspettava – “Suo padre?”, aveva immaginato quel bizzarro bambino ben pettinato e vestito di tutto punto che la seguiva da un pezzo – non era ancora appoggiata su quei fianchi graziosamente addobbati di stracci.
Sussultò, quando una piccola mano inattesa le tirò la gonna.
“Ciao.”
“Che vuoi?”
Si era voltata giusto il tempo di incrociare lo sguardo di un ragazzetto insolitamente ben vestito e ordinatamente pettinato, per essere il figlio di un pescatore – si era voltata, ma sapeva già che non poteva essere quella che aspettava la piccola mano che le era rimasta appesa alla gonna.
“Sono qui per te, vengo da molto lontano.”
“Che strano modo di parlare, per essere un bambino”, aveva sicuramente pensato lei, continuando a fissare la linea dell’orizzonte.
“Ho sentito il tuo canto, e me ne sono innamorato.”
Lei, niente. Continuava a guardare lontano.
“Ho viaggiato così a lungo, percorrendo tante di quelle miglia. Che poi è lo stesso. Sono arrivato poco fa, con la mia nave.”
E un piccolo dito indice aveva puntato verso una zona deserta della banchina, poco più in là. La zona che di solito era riservata alla grandi imbarcazioni. Alle imbarcazioni importanti, non a quelle della povera gente. E finalmente quegli inquieti occhi chiari si erano decisi a seguire la linea invisibile che, da quel piccolo dito, puntava verso il nulla.
“Non c’è niente, là.”
“Non c’è niente, là”. Il suo cuore bambino si era stretto in una fitta improvvisa, mentre il piccolo dito aveva continuato ad indicare più forte: “Ma sì, là! Non la vedi? È un veliero enorme, con tre alberi. Le ho dato il tuo nome.”
Ma lei aveva ripreso a guardare quell’imprendibile punto lontano.
“Lasciami stare la parnanza, me la rovini.”
“Ma io ti amo.”
“Sei solo un fiolo, va’ a giocare.” E l’aveva staccato dalla sua sottana con la grazia brusca delle popolane, senza mai guardarlo, altrimenti avrebbe sicuramente notato quell’insolita, disorientata, ruga che, per la prima volta nella sua vita, gli solcava la fronte limpida. Aveva sorriso, però – un sorriso bianco e accogliente –, probabilmente stupita dai modi bizzarri di quel bambino elegante. No, di certo non era il figlio di un pescatore. Ma chi era, allora?
Poi, mia cara, era successo che il bel viso brunito della fanciulla si era illuminato tutto ad un tratto, e il cuore del bambino era stato come inondato da quella luce debordante.
“La vede, ora sì che la vede!”, aveva pensato quel cuore che si era mantenuto innocente nonostante le innumerevoli miglia – di bonaccia, ma certo anche di tempesta – che la sua nave aveva percorso. E ora lei, l’amore della sua vita, colei il cui canto
… sentivo il canto veloce della terra, che allungava sinuosa le sue dita sottili fino a toccarmi dentro, e farmi ribollire di qualcosa che non sapevo, ma che tendeva le vele pigre del mio vascello e lo sospingeva deciso laddove c’era da andare. E io, vittima di quell’ammutinamento, non potevo oppormi a quel canto bambino che, risuonando nel glabro nido del mio petto, risvegliava il mio, fino ad allora sconosciuto…
l’aveva spinto ad affrontare il mare, ed il suo tempo – che, piccola mia, devi sapere che non è come quello della terra: il tempo del mare è almeno due volte più lento, questo te lo devi ricordare sempre, è molto importante che tu lo ricordi –, lei, insomma, che finalmente aveva raggiunto, ora riusciva a VEDERE la sua nave!
Che gioia! Che consolazione! Mesi, anni di solitudine, di occhi a perdersi – fino a diventarne della stessa sostanza – nel mare, e finalmente averla di fronte, nella sua dimensione perfetta di fanciulla quasi donna, e questa creatura meravigliosa VEDEVA la sua nave, e quindi il suo percorso, le peripezie che l’avevano portato fino a lei. Ad Ancona.
La prima ruga che aveva solcato leggera la sua fronte bambina si era come dissolta, scivolando via fino a nascondersi dietro agli angoli del suo sorriso aperto: “Ora, dunque, puoi capire quanto io ti ami.”
Un puntino. Un minuscolo punto scuro all’orizzonte. Da quell’insignificante puntino, stella del mio cuore, devi immaginare che l’orizzonte abbia cominciato ad oscurarsi. In un precipitare sempre più rapido – il tempo, qua sulla terra, certe volte è veramente molto più veloce che in mare –, il suo bel viso brunito esplodere di gioia per quel punto, i suoi piedi volare fino al punto esatto a cui quel punto stava già approdando, il balzo di un giovane muscoloso, a torso nudo e abbronzato, fino a terra, proprio nel punto in cui lei lo attendeva a braccia aperte, la cesta di pesce abbandonata alle sue spalle e, ancora più dietro, un bambino stranamente ben vestito, per essere figlio di pescatori, e insolitamente triste, per essere solo un bambino.
Piccola, perché sorridi? Devi capire – ma lo capirai, col tempo – che il punto è che lui non era solo un bambino. Si era impegnato con le migliori intenzioni, aveva studiato giorno e notte – quel canto sinuoso e attraente spesso gli impediva di dormire – la rotta della sua nave, per poterla incontrare in quel preciso momento, ma non poteva sapere che il tempo del mare è almeno due volte più lento di quello della terra, e aveva sbagliato a calcolare i tempi, o meglio: i tempi gli avevano giocato un brutto scherzo. Che poi è la stessa cosa.
Si erano baciati, lei e quel giovane pescatore, ancor prima che lui toccasse con i suoi agili piedi scalzi il suolo della banchina. Lui le aveva intrecciato la mano fra quei capelli ispidi, buoni a celare nidi di profumi selvaggi: aspri corbezzoli, ginestre mature…
“Ma sono io quello che ti ama, quello che ha solcato i tempi del mare per raggiungerti…”
“Ah, ah! Sarai anche il figlio di un signore, ma sei un fiolo!” aveva riso forte quell’uomo, notandolo per la prima volta, tremante, alle spalle della sua donna.
“… quello che ha solcato il mare e si è infranto coi suoi tempi, che sono diversi da quelli della terra”, corresse così le sue parole, che rimasero per sempre sospese in quel preciso punto della banchina – che poi sarebbe proprio questo, dove ci troviamo noi ora –, mentre lui correva via, a perdifiato.
L’ultima cosa che aveva visto, prima di voltarsi e scattare, erano stati i denti bianchi e forti di quel giovane il cui viso scuro brillava di sale, e le mani iridescenti di lei che gli accarezzavano la mandibola ispida della barba spuntatagli sulla terra, più che in mare – sì, perché sulla terra il tempo scorre più veloce che in mare.
E poi quelle mani grosse, segnate dai cavi di ormeggio, scendere sui piccoli fianchi della SUA donna… i suoi fianchi, quella singolare costruzione sorretta da impalcature di osso ad angolo acuto la cui rassicurante morbidezza esplodeva tranquilla sotto la vita assottigliata da stracci vezzosamente stretti, fianchi dove si poteva trovare riparo e protezione, suggere succulento nutrimento, crescere, e poi nascere, distaccandosene con una nostalgia tanto forte da desiderare di tornare presto a toccarli con mani lisce di uomo mancato, dopo averli riconosciuti con occhi limpidi e acuti, pronti a riempirsi di lacrime di rabbia il cui sapore dolce, infantile, risuonava però di sentori nuovi, fin troppo salmastri.
Col tuo impercettibile fremito vuoi forse chiedermi dove andò a finire quel bambino, piccola mia? Beh, le suole lisce di quelle scarpette a punta dalle fibbie lustrate a lungo sul ponte della sua nave non erano adatte per il fondo scivoloso della banchina: la sua disperata corsa si interruppe sul traguardo di un cavo di ormeggio abbandonato. In quel breve volo, si dispersero gli ultimi frammenti dell’accuratezza con cui si era preparato all’appuntamento più importante della sua vita: i capelli gli si scomposero in una nuvola impazzita, una scarpina volò via lontano e, nel vano tentativo di limitare i danni della caduta, strappò una manica della sua minuscola giacca ricamata.
La prima ruga del suo viso, quella ruga che si era illusa di sparire, per poi riemergere ancora più profonda, venne squarciata dall’urto violento della sua fronte su una bitta fissata al ciglio della banchina. Per un pelo il ragazzino non finì in mare.
Il lacerante gridò che risuonò nell’aria salmastra, mentre la ghisa gli lacerava la pelle tenera, fece voltare più di un pescatore.
Non piangere, piccola: disperderla in una ferita più grande, fu l’unico modo per cancellare quella maledetta ruga. Sciolse gli ormeggi mentre si scioglieva in un pianto disperato, e il sangue dalla fronte non smetteva di confondersi alle sue lacrime.
Nel tramonto di quella giornata d’inferno, la sua nave si allontanò mesta. Rivolse un’ultima volta lo sguardo in direzione della costa, ma all’insù, verso il Duomo incendiato di rosa sulla cima del Colle Guasco, per poter conservare l’illusione che lei riuscisse a vedere almeno la scia della nave che portava il suo nome via per sempre.
Ma non bisognerebbe dire mai “per sempre”, perché questi tempi sono bislacchi, e sai cosa accadde, dopo?
Durante la navigazione che lo portava lontano, quel bambino non riuscì a dimenticare. Il semplice sfiorare con le dita il rosso della sua cicatrice risvegliava, come un antico carillon, il ricordo del suo canto – o forse era proprio il canto di lei, quello che continuava a sentire? – e, giorno dopo giorno, cominciò a prendere forma nella sua mente il fantasma di un’idea: l’idea del ritorno.
Piccola mia, ti fanno paura i fantasmi, vero? Quell’idea, in realtà, era spaventosa. Ma lui non poteva sapere quanto.
Si era convinto, infatti, durante quel periodo indefinito che aveva passato ad allontanarsi da lei, di aver commesso un banale errore, la prima volta: preso dall’entusiasmo di raggiungere quel canto, sicuramente aveva corso troppo, arrivando in anticipo al suo appuntamento.
“Sono arrivato e me ne sono andato di corsa, da bambino, ma fra venti anni sarò un uomo, e lei sarà ancora giovane per unirsi a me. A quel punto non mi importerà nulla del suo passato, né tanto meno del mio: la prenderò e la porterò via con me”, andava spiegando ai gabbiani il suo piano, più ingenuo di quel bambino che si ostinava a rimanere, mentre attraversava il ponte, avanti e indietro, con le sue impeccabili scarpine a punta.
Finalmente, prima che passassero i venti anni – mi intenerisce il cuore ripensare al fatto che il tempo del mare è almeno due volte più lento di quello della terra, ma questo lui non poteva ancora saperlo –, invertì la rotta della sua nave e fece ritorno ad Ancona. Durante quel periodo era diventato un uomo a tutti gli effetti: la cicatrice pulsava del rosso dei molluschi avvinghiati agli scogli e alghe di barba gli addolcivano il viso virilmente squadrato. Non portava più eleganti scarpette a punta, ma ingrassò i suoi stivali di cuoio con la stessa cura che aveva messo per lustrare i suoi calzari di bambino.
Ed ecco di nuovo, all’orizzonte, il Duomo sul Guasco, stavolta incendiato dal sole di un pomeriggio estivo. Riparò il suo sguardo sotto il palmo di una mano finalmente segnata dalle funi e dal timone, e stavolta guardò dritto verso le banchine semideserte, ribollenti afa.
Puntò con foga verso il luogo dove aveva ormeggiato la sua nave la prima volta, pronto ad affrontare le manovre di approdo. Attraccò con decisione: l’urto della nave con la banchina provocò un boato improvviso, e poi una scossa prolungata, e poi un’onda alta, a coprire quel poco che rimaneva sotto il cielo improvvisamente naufragato in un’oscurità da interruttore spento per errore – o magari per uno scherzo? E poi tutti quegli spruzzi d’acqua, che si riversarono come un provvidenziale acquazzone primaverile – ma era piena estate! – sui quei poveracci che erano rimasti ad abbrustolire sotto la calura.
Da quel momento ad Ancona, per riferirsi a quello stranissimo evento, parlarono della “grande tempesta”. Anche se di una vera e propria tempesta, certo non poteva essersi trattato. Una tempesta dentro al porto, dove mai si è sentito?
Ma come hai visto, questi fenomeni possono verificarsi, se anche poco fa tu stessa ti sei dovuta riparare dal furore degli schizzi, uscendo poi dal tuo nascondiglio e sfidando il freddo della sera, reso ancora più acuto dalle tue vesti mezze fradice, per cercare le stelle marine che sognavi ti avesse portato questa insolita mareggiata.
Quella volta, comunque, la tempesta fu molto più forte. Dopo quel focoso attracco, il giovane vigoroso balzò giù dalla nave, atterrando sicuro sulla banchina benché questa fosse stata resa scivolosa dall’ondata di poco prima. L’acqua, ricadendo sul pavimento arido, aveva risvegliato un intenso odore di pesce rinsecchito. Nel fuggifuggi generale, solo una figura era rimasta immobile al suo posto.
Una donna matura, lo sguardo fisso verso l’orizzonte, si nascondeva il capo con lo scampolo di stoffa inzuppata che fino a qualche momento prima l’aveva protetta dal sole accecante. Tremava di paura – come te, mia piccola –, persa come una preda nell’intrico delle reti da pesca che le filavano dalle mani bruciate da meno anni di sole di quelli che dimostrava. Una poveretta paralizzata dal terrore, ma era comunque l’unica persona a cui chiedere.
“Signora, mi perdoni se la disturbo… ”
E la vecchia smise di tremare, come inchiodata dalla punta di un ricordo.
“… sto cercando una donna giovane, poco più che trentenne. Faceva la pescivendola proprio su queste banchine, venti anni or sono.”
La donna rimaneva immobile fra le sue reti. Impossibile vedere il suo viso, fisso verso il mare.
“Signora, la prego, mi aiuti. Non so a chi altro chiedere: qua non c’è nessuno. Devo trovare quella donna, sono tornato solo per lei, per portarla via con me.”
Ma nulla da fare: la donna rimaneva immobile. Solo le sue mani avevano ripreso, impercettibilmente, a tremare.
“Devo trovarla. Sono molto legato a lei. Ad Ancona.”
Fu solo allora che la donna si voltò, lentamente.
“È la voce del fantasma di mio marito, che è venuto a cercarmi?
E, così dicendo e sorridendo con gli occhi pieni di lacrime, allungò incerta le sue braccia verso il viso dell’uomo. Su quelle mani milioni di piccole squame si erano sedimentate in una crosta ruvida e maleodorante.
“Sei venuto a portarmi via? Sono almeno trenta anni che ti aspetto, finalmente è arrivato il mio momento?”
Quando le lacrime le scivolarono sul viso brunito, fitto di rughe, permettendogli di guardarla negli occhi, in un solo istante lui capì immediatamente tre cose: che era lei la donna per cui era tornato, che era diventata cieca e che il tempo del mare è molto più lento di quello della terra.
Piccola mia, come descrivere, a te che sei così giovane, quale tempesta nel cuore di quell’uomo, i cui ultimi venti anni, passati a percorrere avanti e indietro il ponte della sua nave, progettando il momento giusto del ritorno, all’improvviso si gonfiarono, imbizzarrendosi verso l’alto, per poi infrangersi alle pareti della sua anima. Impotente.
Esternamente, però, non batté ciglio. Mentre le mani della vecchia percorrevano il suo viso impassibile, rivolse lentamente lo sguardo verso la sua nave ormeggiata, che riposava placida.
“Questa cicatrice… deve essere il ricordo della brutta avventura che ti ha portato via da me, amore mio, ma tu ora sei tornato, vero? E sei arrivato di corsa: l’ho sentita, sai, l’onda che la tua nave ha riversato su questa banchina! Ho le vesti ancora inzuppate, e l’odore dell’acqua, unico mio amico, mi racconta del tuo grosso veliero – una nave a tre alberi, vero? –, e della prescia di portarmi via con te…
Mentre la vecchia parlava, la voce rotta dell’emozione, quello che lei gli raccontava lui riusciva a intravederlo dietro uno spesso velo di lacrime, che però rimase incollato alle sue retine.
Piccola mia, come descrivere, a te che sei così giovane, quale sconforto si riversò nel cuore di quell’uomo quando realizzò che i suoi ultimi venti anni, passati in mare ad attendere il momento giusto del ritorno, sulla terra erano stati almeno quaranta.
Si staccò penosamente dalle ruvide mani di quella vecchia e ripartì, pirata solitario al quale, per la seconda volta, era stato negato l’agognato bottino. A impedirgli di spezzarsi fu solo la pazienza che aveva maturato in quei fin troppo lunghi anni di navigazione, e la speranza del suo cuore, che in fondo era rimasto bambino.
Anche tu, piccola, mantieniti innocente nel continuare a sperare che la furia della mareggiata possa serbarti un tesoro di stelle e di conchiglie: quando sarai più grande, ricordati di quando era normale cadere, e poi rialzarsi, e poi riprendere a giocare, ché non c’è altro da fare che trascorrerli, questi maledetti tempi bislacchi, e allora perché non trascorrerli giocando, senza mai stancarsi di andare a cercare le stelle di mare che ogni mareggiata lascia sulla sua scia? La stella, che ti ho donato in cambio del tuo ascolto, conserva questo dono: ricorda di portarla sulla tua fronte, e nessuno potrà abbatterti, piccola mia.
Ma forse, mia stellina – stai ancora tremando, deve essere il freddo della sera che si cristallizza fra le pieghe dei tuoi vestitini bagnati dall’onda forte di poco fa –, tu ora vorrai sapere che fine fece quell’uomo, dopo essersi congedato dalla vecchia cieca. A impedirgli di spezzarsi fu solo la pazienza che aveva maturato in quei fin troppo lunghi anni di navigazione, e la speranza del suo cuore, che in fondo era rimasto bambino. La pazienza, la speranza e un piano, che cominciò a tenergli compagnia, maturando con lui nel corso di altri lunghi anni di navigazione.
E tu, luce dei miei occhi, che mi hai permesso di raccontarti questa storia in cambio della stella marina che ora stringi al petto, al posto del tuo cuore; che mi hai permesso di abbracciarti le spalle – entrambi guardiamo verso il mare – mentre ti chiudi a bombetto, intorno al mio dono, per non essere costretta ad incanalare la linfa del tuo sguardo nel profondo solco, ormai levigato dal tempo, che mi attraversa la fronte, e per non dover respirare il mio fiato che puzza di più una vecchiaia. Che coi tuoi fremiti mi hai sospinto a proseguire il racconto, perché non ti rimaneva altro mezzo per esorcizzare la paura della mia voce. Tu, piccola mia, ora questo piano stai per conoscerlo.
A dire il vero, devo proprio raccontarti questa storia, e tu devi assolutamente stare a sentire: è molto importante che tu mi ascolti, e che ricordi queste parole. Me lo devi proprio promettere: tu non devi perdere la speranza – o l’ostinazione, che poi è lo stesso – di rialzarti quando cadi, di continuare a cercare di realizzare i tuoi desideri – credimi, non c’è altro da fare –, di ingegnarti in tutti i modi per superare gli ostacoli che si frapporranno al raggiungimento delle tue mete. È veramente fondamentale che tu lo ricordi, perché sai, io ho questo piano: il destino per ben tre volte mi ha messo di fronte alla mia ingenua imperizia, ma ora ho capito. Sì, ne sono certo: stavolta non posso fallire. La prima volta sono arrivato che ero troppo bambino, e pensavo di aver corso troppo. Allora me ne sono andato e ho atteso, ma quando sono tornato tu eri troppo cresciuta. Solo in quel momento ho capito la differenza che c’è fra il tempo trascorso in mare e il tempo trascorso in terra, e sono tornato ora unicamente per te, per avere la conferma delle mie teorie sui tempi, e la sorpresa che i tempi possono giocare con noi, ma che noi ci saremo sempre. Trovarti ora, e trovarti bambina, mi dà la quasi assoluta certezza che il mio piano funzionerà.
C’è una sola incognita: non so se, nel passaggio da una vita all’altra – perché, te lo ripeto, i tempi possono giocare con noi, ma noi ci saremo sempre –, si perda il ricordo di quello che è stato. Per questo motivo, non ho appena ti ho rivista, ti ho rivolto quelle domande – scusami se ti ho spaventata, non volevo farti piangere –: perché per la riuscita di questo mio piano è fondamentale che tu non perda mai la speranza e che ricordi tutto quello che sto per dirti, perché io fra non molto me ne andrò – me ne andrò per sempre, sai cosa intendo, vero? –, e non sono certo di poter ricordare tutto, quando tornerò. Sì, perché io me ne andrò, ma tu crescerai, e quando sarai donna io ti sarò figlio. Non appena adolescente, partirò per mare e starò via tanti anni – tu però promettimi che non soffrirai troppo: devi ricordare che lo sto facendo per te. Ora che so che in mare il tempo si dilata, starò via il giusto periodo – è un piano perfetto, te lo assicuro: ho passato anni a perfezionarlo! – per tornare uomo fatto e trovarti vecchia e saggia consigliera. Allora io mi fermerò in terra e ti assisterò nei tuoi ultimi giorni – ma me lo devi ricordare che non devo essere triste, e che sta andando tutto per il verso giusto –, fino a quando, in punto di morte, mi chiederai di partire per qualche anno – io magari immaginerò che me lo stai chiedendo per farmi superare il dolore del distacco da te –, poi di tornare e di prendere moglie. Quando te ne sarai andata – il solo pensarlo mi fa male, anche se so perfettamente che fa parte del piano che io stesso ho elaborato –, io eseguirò il tuo volere: partirò, tornerò e prenderò moglie. Allora sarai tu a tornare – pregusto già quel momento di gioia, sai? –, e mi sarai figlia. Non ti preoccupare: rimarrò con te fino a condurti in sposa. Solo dopo quel giorno – allora sarò un uomo già avanti con gli anni – mi rimetterò in viaggio per mare. Nel mare il tempo scorre lento: quando tornerò sarò vecchissimo, ma altrettanto lo sarai tu – è chiaro, no? Il tempo sulla terra è almeno due volte più veloce di quello trascorso in mare –: mi assisterai negli ultimi miei giorni, consolandomi del fatto che le cose si stanno finalmente mettendo per il meglio, per noi. Te ne andrai poco dopo di me, consolandoti del fatto che il piano sta ormai giungendo al culmine della sua realizzazione – ti ricordi tutto, piccola? Così, da brava, stai annuendo –, sì perché a quel punto ci saremo quasi: nascerò qualche anno prima di te – mi pare lecito ipotizzarlo, visto che me ne sono andato prima –, e saremo finalmente giovani insieme. E dopo, piccola mia, lo sai cosa succederà? Ti porterò via in mare: là il tempo scorre più lento. L’hai capita anche tu, questa strana cosa del tempo che funziona diversamente in mare? Perché è estremamente importante che tu lo sappia, amore mio, perché io non potevo saperlo, e se l’avessi saputo avrei potuto abbracciarti già da… sessantacinque anni… sessantacinque anni marini, che poi equivarrebbero ad almeno centotrenta anni terrestri: per questo tu mi sei corsa avanti, così avanti da tornare bambina, senza che io avessi il tempo di spiegarti quello che finalmente ero riuscito a comprendere, e ora te ne stai tutta tremante dentro le mie braccia flaccide, stringendo a tua volta la stella marina che ti ho donato in cambio del tuo ascolto, pregandoti di conservarla a ricordo di quello che da sempre avrei voluto dirti, e cioè che ti amo, e soprattutto che ti amerò, al di là dei tempi che ci hanno diviso sinora.
E ancora, mio eterno amore, non dimenticare mai di cercarmi alla luce di questa stella: solo così io potrò trovarti e, se avremo la fortuna di incontrarci giovani, come spero (ce lo meriteremmo pure, dopo tutte queste peripezie, no?), ti porterò via sulla mia nave, perché finalmente l’ho capito che il tempo del mare è più lento di quello della terra, e così potremo essere giovani più a lungo. Nel caso qualcosa andasse storto – bisogna pensare a tutte le evenienze, sai com’è! – e, al contrario, ci incontrassimo ormai avanti con l’età, allora rimarremo qua sulla terra, dove il tempo corre veloce e gli anni della vecchiaia saranno più rapidi da trascorrere – non puoi immaginare, infatti, come sia interminabile la vecchiaia di mare, che è il motivo per cui non salperò più da questo porto o, per meglio dire, non salperò più da questo porto finché questa mia vita non salperà via da me.
Per questo motivo, oltre alla promessa di conservare questa stella, minuscolo tesoro, ti chiedo un altro favore: te la senti di prenderti cura della mia nave? Di tanto in tanto, quando puoi. Basta che tu la guardi. Anche da lontano, anche da qua. Me lo prometti?
- …
- Piccola mia, non aver paura: se non te la senti, io… Che sciocco! Dimenticavo di chiederti la cosa più importante di tutte: ma tu la vedi, la mia nave?
Nel pronunciare queste ultime parole, fu lui a tremare. La bambina approfittò per liberarsi dal suo abbraccio, voltandosi rapidamente verso il punto della banchina dal quale era saltato fuori quel vecchietto elegantemente vestito, con quelle strane scarpe a punta che in effetti le ricordavano vagamente qualcosa, ma che di certo dovevano essere proprio scomode. Era apparso così, all’improvviso, dopo che quell’onda strana aveva sommerso d’acqua il suolo, che ora brillava scuro sotto il cielo plumbeo. Lei prima si era riparata dagli schizzi – un po’ di paura l’aveva avuta, certo, come tutti del resto –, ma poi era uscita sulla banchina deserta e si era messa alla ricerca di stelle marine. Ingenuamente aveva pensato che quell’insolita mareggiata serale chissà quante, e di magnifiche, gliene avrebbe portate. Era stato allora che lui l’aveva raggiunta, donandogli quella stella – a dire il vero ancora più magnifica di quello che lei avesse potuto sognare – in cambio del suo ascolto.
“Perché, capisci, se non la vedi nemmeno tu, davvero tutto questo non avrebbe senso.”
Ma, fortunatamente, gli si riempirono gli occhi delle lacrime di tutte le sue età quando lei, il ditino puntato verso la quieta Ancona, dondolante dolcemente la sua fiancata contro la banchina, finalmente esclamò:
“Quale dici? Quella grossa, là, con ben tre alberi?”
Fu tentato di baciarle quelle gote lisce, ammorbidite dalle lacrime e profumate di mare che avevano continuato a tentare la pellaccia raggrinzita del suo viso.
Si trattenne solo per non rischiare di lasciarle il ricordo del suo fiato, che puzzava di vecchio.