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Archivio della Categoria 'Taccuino di Viaggio'

Dappertutto gli occhi di New York

lunedì 22 dicembre 2008

FotoPirsig1.JPG       FotoPirsig.JPG       FotoPirsig1.JPG Le città hanno un volto. Le città hanno un cuore. Le città hanno arterie che le percorrono e – nei casi più fortunati – polmoni verdi. Le città hanno persino una data di nascita e, dunque, un loro segno zodiacale e una personalità corrispondente. È impossibile, insomma, descrivere le città senza fare ricorso alla figura retorica della personificazione (vera e propria Musa ispiratrice di molti corsi di RaccontidiCittà). Una personificazione particolarmente forte di New York, quasi brutale e al tempo stesso illuminante ho trovato rileggendo Lila di Robert Pirsig (1991): "I tombini conducevano a una rete sotterranea intricatissima, una rete di sistemi che permettevano all'isola di esistere: la rete elettrica, la rete telefonica, quella delle condutture dell'acqua, del gas, la rete fognaria, le gallerie della metropolitana, il circuito dei cavi televisivi e chissà quanti altri sistemi che lui non immaginava nemmeno, ciascuno con una sua funzione precisa, come l'intrico dei nervi e delle arterie e dei tendini di un corpo gigantesco. Il Gigante dei suoi sogni. (continua…)

Profilo di città

mercoledì 12 novembre 2008

On the air(5).jpg       On the air(3).jpg       On the air(2).jpg "Rick, guarda un attimo lì. Fuori dall'oblò." "Dove?" "Proprio sotto di noi." "Santi numi! Ma io quella lì la conosco! È…" "Jayne Mansfield." "Esatto, Jayne Mansfield. Che ci fa a forma di città? Quella non è East Corinth?" "Te lo spiego dopo." "Dio mio, guarda lì il confine occidentale. Quella è la 271. E quella è la Bretella Interna. Io ci vado in macchina, su quella roba lì." [...] East Corinth era stata fondata e costruita nel 1960 da Stonecipher Beadsman II, figlio di Lenore Beadsman, nonno di Lenore Beadsman, sfortunatamente morto a settantacinque anni nel 1975 annegando in un tino industriale nel corso di un catastrofico tentativo da parte della Stonecipheco Alimenti per l'Infanzia di sviluppare e lanciare sul mercato un prodotto che potesse competere con il Jell-O. Stonecipher Beadsman II era stato un uomo di notevoli talenti e di ancor più notevoli interessi. Cinefilo accanito nonché urbanista dilettante, si era pazzamente infatuato di una stella del cinema di nome Jayne Mansfield. La sagoma di East Corinth riproduceva il profilo di Jayne Mansfield: scendeva da Shaker Heights con una folta aureola di intricati tornanti, lungo delicati lineamenti di villette e piccoli edifici, un nasino di parco e una carnosa sezione di quadrivio ridente, e quindi giù per la sinuosa curva cignea di un argine autostradale di complessi residenziali, per poi aggettare precipitosamente verso ovest in un procace rigoglio di fabbriche e aree industriali mammonesche e prosperose, dopodiché ripiegava non meno impudicamente a un paio di miglia a sud in un cespo folto di palazzine e botteghe e pensioncine, inclusa quella dove abitava Lenore Beadsman e da cui quel mattino era partita lungo tutta Jayne Mansfield alla volta della Casa di Riposo Shaker Heights" [tratto da David Foster Wallace, La scopa del sistema, Fandango s.r.l. 1999, traduzione di Sergio Claudio Perroni]. La prova d'esordio del recentemente scomparso talento americano David Foster Wallace è una smisurata macedonia di personaggi – umani e animali – dal nome improbabile, fra i quali si delinea il profilo a forma di diva della città in cui si svolgono le loro mille storie, tutte da assaporare.    S.S.

Racconto di una notte taiwanese a Venezia

martedì 21 ottobre 2008

Dark City (Taiwan).jpg       Dark City (Taiwan).jpg       Dark City (Taiwan).jpg Quante aree metropolitane, noiose e grigie di giorno, si scatenano di luci durante la notte?  Taiwan è una di queste. Peccato che di solito il design urbano si focalizzi sulla vita diurna di un centro abitato. Per questo l'esibizione del National Taiwan Museum of Fine Arts ha invitato sei giovani architetti creativi a riflettere sul mito ignorato e smaliziato della notte, ripensando e ripresentando i sogni utopici dei taiwanesi attraverso una serie di opere esclusive che proiettino luce sull'oscurità della vita cittadina. Partendo dall'idea di rifiutare la divisione netta tra il giorno e la notte, si possono infatti gettare nuove basi per la creatività urbana, nella piena convinzione che la liberazione dello spazio oscuro, in luogo del bianco e nero, e dunque dell'ambiguità, sia più apprezzabile della chiarezza. Ospitata nell'ambito degli eventi collaterali della 11. Mostra Internazionale di Architettura, la mostra Dark City è visitabile fino al 23 Novembre presso il Palazzo delle Prigioni di Venezia. Per informazioni: Arte Communications E-mail: info@artecommunications.com pressoffice@artecommunications.com S.S.

Da Antinopoli a MyMiniCity

lunedì 15 settembre 2008

Gru1.jpg       Gru1.jpg       Gru1.jpg “Flegone aveva chiamato a raccolta per me sulla riva del fiume gli architetti e gli ingegneri del mio seguito; sostenuto da una specie di ebbrezza lucida, me li trascinai su per le colline sassose; spiegai loro il mio piano, il tracciato dei quarantacinque stadi di muro di cinta; segnai sulla sabbia il luogo dell’arco di trionfo, e quello della tomba. Qui sarebbe sorta Antinopoli; era già quasi vincere la morte, l’imporre a quella terra sinistra una città tutta greca, un bastione che avrebbe tenuto in soggezione i nomadi dell’Eritrea, un nuovo mercato sulle strade dell’India. Alessandro aveva celebrato le esequie di Efestio con devastazioni ed eccidi; mi sembrava più bello offrire al mio prediletto una città dove il suo culto sarebbe stato associato per sempre all’andirivieni di una pubblica piazza, dove il suo nome sarebbe tornato nelle conversazioni, ogni sera, e dove i giovani si sarebbero gettati ghirlande, all’ora dei banchetti" [tratto da Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano seguite dai Taccuini di appunti, Giulio Einaudi Editore s.p.a. 1988, a cura di Lidia Storoni Mazzolani]. Costruire una città da dedicare al proprio amato: roba da imperatori. Oggi noi, comuni mortali, al limite possiamo provarci con MyMiniCity. Ma non è la stessa cosa. S.S.

L’ascesa del monte Fuji

lunedì 11 agosto 2008

Sushi.JPG       Kotobukia(1).jpg       Japan Center(2).jpg

“L’11 agosto, la Mercedes bianca mi aprì lo sportello.
- Dove andiamo?
- Vedrai.
Non sono mai stata portata per gli ideogrammi, ma ho sempre saputo leggere i nomi dei luoghi. Questo talento mi fu molto utile nel corso delle mie peregrinazioni nipponiche. Perciò, dopo un lunghissimo viaggio, i miei sospetti vennero confermati:
- Il monte Fuji!
Era il mio sogno. La tradizione afferma che ogni giapponese deve aver scalato il monte Fuji almeno una volta nella vita, altrimenti non merita una nazionalità così prestigiosa. Io, che desideravo ardentemente diventare giapponese, vedevo in questa ascesa un trucco geniale per acquistare quell’identità. Tanto più che la montagna era il mio territorio, il mio terreno. […] Il destino, noto per il suo senso dell’umorismo, ha voluto che nascessi belga. Essere originaria del paese piatto quando appartieni alla stirpe zoroastriana è uno sberleffo che ti condanna a diventare una spia doppiogiochista”
[tratto da Amélie Nothomb, Nè di Eva né di Adamo, Voland s.r.l. 2007, traduzione di Monica Capuani].

Di questi tempi è rinfrescante pensare alle cime innevate del monte Fuji: “Alla fine avevo trovato un posto dal quale non appariva magnifico, per la semplice ragione che non si vedeva: la sua base. Altrimenti, quel vulcano è un’invenzione sublime, ed è visibile quasi ovunque, al punto che talvolta l’ho scambiato per un ologramma. Non si conta più il numero di siti sull’isola di Honshu dai quali si ha una vista superba del monte Fuji: sarebbe più facile contare i luoghi dai quali non si vede. Se i nazionalisti avessero voluto creare un simbolo unificante, avrebbero inventato il monte Fuji.”

Tante le città di Amélie Nothomb: figlia di un diplomatico belga, nasce a Kobe, in Giappone, nel 1967 e poi segue il padre in Cina, America, Bangladesh e in molti altri paesi.
Nel suo quindicesimo romanzo, che in Francia ha vinto il Prix de Flore 2007, l’autrice racconta con ironia le sue peripezie amorose con Rinri, il ricco fidanzato giapponese a cui è legata da un sentimento forte, ma non quanto quello che la avvince al paese in cui è nata e dove ha trascorso i mitici anni dell’infanzia.

S.S.


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